lunedì 24 dicembre 2007

Introdotti altri 9 cervi nel Gran Sasso.

Ciao a tutti. Colgo l'occasione di questo articolo per augurare a tutti un felice Natale e un inizio di anno nuovo scoppiettante!!!

E' sicuramente un buon Natale anche per il parco Gran Sasso e Monti dell Laga, che ha visto la reintroduzione (progetto cominciato già da due anni) di nove cervi dell'Appennino tosco-emiliano, liberati in localita' Valle d'Angri di Farindola (PE). Si tratta di due maschi adulti di oltre 200 Kg, un giovane maschio, 4 femmine adulte e 2 piccoli. Sono stati catturati e poi rilasciati dalla ditta specializzata Dream Italia di Arezzo, nel Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone e vanno ad aggiungersi all'altra decina di esemplari reintrodotti negli ultimi due anni nella stessa zona.

Tale zona è già stata popolata negli anni scorsi anche dei camosci, che vivono però a quote superiori e che si possono incontrare in quota sul monte camicia, se si ha fortuna però!

Buona notizia questa. Quindi armatevi di binocolo e chissà che passeggiando nei boschi di Farindola non si incontri un grande cervo!?

Buon Natale a tutti.

Emiliano

sabato 8 dicembre 2007

Progetto Cerere

Il progetto, si propone di recuperare e valorizzare le antiche varietà colturali, orticole, leguminose, cerealicole e frutticole. L’iniziativa coinvolge in via sperimentale i comuni del versante aquilano del Gran Sasso e precisamente: L’Aquila, Barete, Barisciano, Cagnano, Calascio, Campotosto, Capestrano, Capitignano, Carapelle, Castel del Monte, Castelvecchio Calvisio, Montereale, Ofena, Pizzoli, Santo Stefano di Sessanio, Villa Santa Lucia. I primi due incontri si sono svolti nel mese di novembre per i comuni di Barisciano, Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Carapelle Calvisio, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte, Capestrano, Ofena e Villa Santa Lucia, il progetto ha riscosso grande interesse da parte degli agricoltori dell’area protetta, i quali intendono partecipare con entusiasmo e approvazione. In occasione della presentazione sono emerse interessanti varietà agronomiche legate agli usi e alle tradizioni locali, che rischiano l’estinzione e meritano attenzione e salvaguardia, poiché da un lato rappresentano preziose risorse genetiche selezionatesi nel tempo e dall’altro offrono l’opportunità di diversificare e qualificare le produzioni agricole regionali utilizzando sistemi di produzione rispettosi dell’ambiente.

Questo il documento presentato da Aurelio Manzi (Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga):

Tutela delle biodiversità colturali e agronomiche: l’esperienza del Parco
Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga


Introduzione

La montagna appenninica negli ultimi decenni è stata teatro di profondi stravolgimenti di carattere sociale e culturale. I flussi migratori delle popolazioni montane, indirizzati nei primi decenni del secolo verso l’America, in seguito nei paesi europei e, successivamente, nelle aree industriali del nord del paese o nelle fasce costiere, hanno determinato lo spopolamento in massa delle terre marginali dell’entroterra, Il processo dell’abbandono produttivo di vastissime aree della penisola italiana è un fenomeno di portata storica. Infatti nella storia della penisola italiana, il processo di abbandono di aree limitate e circoscritte si è verificato di frequente in seguito ad eventi luttuosi quali terremoti, pandemie, guerre, ecc. Al contrario, un fenomeno così ampio e generalizzato nella dimensione spaziale e socio-economica, come quello attuale, nel nostro paese ebbe a verificarsi solo negli ultimi anni dell’Impero Romano ed in particolare in seguito alla caduta dello stesso e successive invasioni barbariche (Sereni, 1982). In quel determinato periodo storico buona parte del territorio italiano tornò a inselvatichirsi; si assistette al fenomeno di “reazione della foresta” e all’affermarsi del paesaggio del “saltus”, ossia dei terreni incolti ed abbandonati. Lo stesso paesaggio che, almeno nelle aree collinari e montane della penisola, oggi si sta riproponendo con forza.
Sui campi e pascoli abbandonati si sono innescati processi dinamici nella vegetazione naturale, riconducibili essenzialmente alla successione secondaria, che porteranno, con tempi ovviamente differenziati in base alle caratteristiche ambientali e stazionali, al ritorno della primitiva copertura forestale.
L’abbandono di vaste aree montane e alto-collinare da parte delle tradizionali attività umane ed in particolare quella agricola, oltre a molteplici ripercussioni sull’aspetto paesaggistico del territorio, nonché sui diversi ecosistemi secondari, sta determinando la scomparsa di moltissime antiche varietà colturali ivi sopravvissute ai cambiamenti tecnologici e sociali avvenuti nei decenni passati nelle fasce agricole più produttive della costa e della bassa collina. Stiamo così assistendo ad un allarmante fenomeno di erosione del patrimonio agronomico che non trova precedenti in passato. Già risultano estinte nel territorio abruzzese diverse varietà colturali locali, altre avranno la stessa sorte nel giro di qualche anno. E questo un fenomeno purtroppo comune ad altre regioni italiane ed europee. In Italia, a titolo di esempio, fino agli anni ‘20 erano state censite oltre 150 varietà di grano attualmente ridotte solamente a qualche decina (AA.W, 1991).

Le antiche varietà colturali

L’Abruzzo, quantunque localizzato al centro della penisola italiana, è una terra isolata, rispetto alle regioni circostanti, da montagne altissime che come ebbe a scrivere Silone “. ..sono i personaggi più prepotenti della vita abruzzese”. Non è un caso che Boccaccio nel suo Decamerone faccia dire a Calandrino, in riferimento ad una terra lontanissima e mitica, “più in là che in terra d’Abruzzo”.
L’isolamento geografico e la presenza di grandi complessi montuosi, inframezzati da conche ed altopiani, hanno giocato un ruolo decisivo nella selezione di forme colturali a diffusione prettamente locale. Il mantenimento di varietà colturali molto antiche è la conseguenza anche dell’attaccamento delle popolazioni, almeno fino a qualche decennio addietro, alle tradizionali forme economiche così magistralmente descritto da Silone: “Gli Abruzzesi sono rimasti stretti in una comunità di destino assai singolare, caratterizzata da una tenace fedeltà alle loro forme economiche e sociali anche oltre ogni pratica utilità, il che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto che il fattore costante della loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi, la natura”. Alcune di queste colture tipiche sono conosciute abbastanza diffusamente, in conseguenza del loro carattere originale ed esclusivo, come nel caso dello zafferano dei Piani di Navelli (Tammaro, Di Francesco, 1978) o dell’aglio rosso di Sulmona. Altre colture, in particolare varietà od ecotipi a diffusione locale, risultano sconosciuti, spesso anche nell’ambito della stessa regione. I cereali sono, tra le specie coltivate, quelle più importanti per il loro elevato valore nutrizionale e facilità di conservazione. Indubbiamente,
una delle varietà più interessanti ed antiche di grano tuttora presenti in Abruzzo è la solina. Si tratta di un grano tenero aristato che gli agronomi del secolo scorso individua-vano come Triticum hybemum.
Probabilmente la solina è da riferire all’antica siliginis di cui parlano sia Columella, nel De re rustica, che Plinio, nella sua Historia naturalis, e dalla quale si otteneva un ottimo pane. La consapevolezza che si tratta di un grano antico può essere ravvisato anche nei detti popolari locali: “Ogni grano torna a solina — La solina è la mamma di tutti i grani”.
La solina un tempo era diffusa in buona parte dell’Abruzzo (Del Re, 1835) ove erano conosciute anche diverse varietà locali (per es. a Castiglione Messer Marino solina nustrane, solina prandogne). Attualmente la sua coltura viene praticata quasi esclusivamente nell’Altopiano delle Cinquemiglia ad un’altitudine di circa 1300 m ove, insieme alla segala, risulta l’unico cereale in grado di garantire il raccolto a quote così elevate. Piccoli campi coltivati a solina si rinvengono anche nella zona di Pizzoferrato, nell’area dei Monti Pizzi, dove questo cereale viene seminato per esclusivo uso famigliare poiché, a detta dei contadini, fornisce un pane ottimo.
Un altro grano interessante ed antico è il grano marzuolo, un grano duro che si seminava nelle aree montane in marzo, spesso come ripiego, quando le cattive condizioni climatiche autunnali avevano impedito la semina di altri cereali. Probabilmente, il grano marzuolo potrebbe corrispondere al trimenstre di Columella, cereale utilizzato in epoca romana per la semina primaverile di ripiego.
Questo tipo di grano è quasi del tutto scomparso in Abruzzo; di recente ho individuato un piccolo campo di grano marzuolo a Montenerodomo, nel settore montano della provincia di Chieti. I farri (Triticum dicoccon, T monococcon) in Abruzzo venivano coltivati diffusamente, fino al secondo dopoguerra, per esclusivo uso animale. Attualmente, in seguito alla riscoperta di questi cereali nell’alimentazione umana, la coltivazione dei farri si sta ridiffondendo in diverse regioni tra cui l’Abruzzo. Si tratta, però, di cultivar che provengono da altre regioni italiane (Umbria, Toscana, Lazio). Solo nel settore meridionale dell’Abruzzo, ai confini con il Molise, come nei comuni di Borrello o Montenerodomo, vengono tuttora coltivati farri autoctoni (Triticum dicoccon) o quantomeno provenienti dai vicini territori molisani. La spelta (Triticum spelta) invece è stata coltivata fino a qualche anno addietro sia per scopi zootecnici che per la paglia. Infatti questo cereale, come la segala, presenta culmi lunghi e sottili idonei per la copertura di capanne, pagliai, ecc. Di conseguenza, spesso, a ridosso degli orti, c’erano coltivazioni limitate di spelta o segala per la produzione di paglia. Interessante è stato il rinvenimento di spighe di spelta in un cuscino di sepoltura del XVII secolo nella chiesa di San Giacomo a Torricella Peligna.
Le altre antiche varietà colturali di grano, diffuse in Abruzzo nel secolo scorso (Del Re, 1835) e fino ai primi decenni di questo, come la saravolla, rosciola, carosella, sembrano totalmente scomparse dal territorio regionale come anche alcune colture più antiche, quali il miglio ed il panico la cui presenza è documentata in Abruzzo negli statuti dei secoli XV e XVI di molte comunità rurali. Stessa sorte per le vecchie varietà di orzo, attualmente sostituite da cultivar più produttivi. Tra le varietà ormai in disuso vi è l’orzo marzuolo con cui nelle terre più alte deIl’Aquilano si confezionava un tipo di pasta particolare nota come gnocchi sorgetti (Bonanni, 1877); mentre non si hanno più tracce della varietà di orzo nota come olivese utilizzata nel Teramano, fino al secolo scorso, dagli agricoltori per preparare minestre (Celli, 1893).
Un altro gruppo di specie erbacee di notevole interesse per l’agricoltura sono le leguminose. Nel territorio regionale, tuttora, si rinvengono aree specializzate nella produzione di particolari specie o varietà colturali. E il caso della lenticchia (Lens culinaris) coltivata oggi esclusivamente sul Gran Sasso a Santo Stefano di Sessanio, a quote che oscillano intorno a 1400-1500 m. Fino al secondo dopo-guerra, la lenticchia veniva coltivata anche in altri ambiti montani della regione come l’Alto Sangro o la Majella e montagne vicine. La cicerchia (Lathyrus sativus) allo stato attuale risulta maggiormente diffusa rispetto alla lenticchia; il centro specializzato nella sua produzione è Castelvecchio Calvisio sul Gran Sasso. Piccole coltivazioni per uso famigliare si localizzano anche nel medio bacino del fiume Sangro dove è tornata di moda una polenta verde fatta con la farina di cicerchia e conosciuta localmente come farchiata. Spesso, però, le antiche varietà locali sono state sostituite con varietà a seme più grosso di provenienza estera, con conseguenze intuibili per le forme autoctone.
Va preso atto della scomparsa del cece rosso, una piccola varietà di cece (Cicer aretinum) di colore scuro diffuso, fino all’ultima guerra, in buona parte della provincia di Chieti e nel Teramano, dove è stato sostituito con nuove varietà. Anche per i fagioli va denunciata la perdita di numerose varietà locali. Qualcuna però, come i caratteristici fagioli a olio di Paganica, vicino L’Aquila, o quelli a pane di Scanno e Frattura, tuttora vengono coltivati nella loro zona di diffusione dove ancora godono di un’alta considerazione e spuntano sul mercato prezzi piuttosto alti.
Fino a qualche decennio fa, nelle aree montane della regione, in particolare l’Alto Sangro e gli Altipiani Maggiori, era coltivato una varietà di pisello, probabilmente da riferire a Pisum sativum subsp. elatius, conosciuto localmente come riveglie. I semi servivano sia per l’alimentazione del bestiame che per l’alimentazione umana. A Pescocostanzo un piatto ampiamente consumato d’inverno era costituito proprio da sagne e riveglie. Giuliani in un suo scritto inedito della seconda metà del XVIII, parlando di Roccaraso e delle aree limitrofe, scriveva: “... e vi si coltiva una specie di legumi simili al pisello di un colore fusco cinereo detti con lingua patria Riveglie. Queste riveglie si seminano nel mese di Aprile, e vi si raccolgono nel mese di Agosto. Molto soddisfano alla povera gente, che costretta a star ritirata in casa per il freddo, e per le nevi ne fa di esse il maggior consumo nell’inverno...” (De Panfìlis, 1991). Le riveglie oggi risultano completamente scomparse nelle aree classiche della loro coltivazione. Stessa sorte è toccata ad altre leguminose da granella, un tempo diffusamente seminate per il bestiame nelle aree montane, come alcune varietà di Vicia sativa e Lathyrus cicera.
Il patrimonio agronomico regionale si presenta ricco e diversificato anche per quanto concerne gli alberi fruttiferi. Sopravvivono, tuttora, molte varietà di mele, alcune distribuite su vaste zone, altre invece limitate a piccole aree. Per avere un’idea dello straordinario patrimonio pomologico basti pensare che in un solo territorio comunale, quello di Gessopalena, alle falde della Majella, sono state riscontrate ben 13 diverse varietà di mele. Tra queste anche la mela piana o casolana, dal nome del vicino paese di Casoli a cui fa esplicito riferimento Boccaccio nel Decamerone quando, nella novella di Frate Puccio, accennando ad una donna scrive: ... fresca bella e ritondetta che pareva una mela casolana”.
Interessanti e significativi riferimenti storici e letterari sulle produzioni fruttifere abruzzesi le troviamo anche per quanto riguarda i fichi. Plinio asserisce in maniera esplicita che i migliori fichi, secondi per qualità solo a quelli delle isole Baleari, sono quelli dei Marruccini, ossia dei popoli che abitavano intorno all’antica Chieti. Tuttora in questa area è ampiamente diffusa la coltivazione dei fichi a scopo commerciale. A Bucchianico, il centro maggiormente interessato a questa pratica colturale, ho raccolto informazioni relative a 12 diverse varietà. Lo stesso nome dialettale carracine, diffuso in Abruzzo per indicare i fichi secchi, è probabile che tragga le sue radici etimologiche nell’antica varietà di fico caria, dal nome della località in Asia Minore, introdotta nella colonia di Alba Fucens, presso l’antico lago Fucino, da un ambasciatore romano in Siria come ci riferisce puntualmente Plinio (Manzi, 1997).
Per quanto riguarda la vite, molti vitigni sono andati persi. In particolare diverse uve bianche coltivate ampiamente nelle zone montane fino agli inizi di questo secolo, ove attualmente la coltura viticola ci sembra quantomeno improponibile. Tra queste probabilmente l’uva che Columella, nel De re rustica, individua come pumila nella conca aquilana o hirtiola nel settore nord della regione. Delle varietà di uve citate nello statuto del XVI secolo di Lanciano: muscardello, pergolo, uva pane, uva donnole, precoccio, malvasia (La Morgia, 1974), solo qualcuna risulta tuttora coltivata.
Nelle aree a vocazione olivicola della regione quale la zona vestina, che fa capo ai centri di Pianella, Loreto Aprutino e Penne, o il settore costiero e collinare della provincia di Chieti, si è conservato un notevole patrimonio di varietà ed ecotipi locali di olivo, alcune delle quali attualmente sono state recuperate e rilanciate sul mercato come nel caso della gentile dell’area teatina o della dritta e tortiglione delle provincie di Pescara e Teramo.
Tra le coltivazioni arboree risultano totalmente scomparse quelle dei frassini di manna (Fraxinus ornus e E oxycarpa) la cui presenza in Abruzzo è documentata nel settore meridionale e costiero fino ai primi decenni del secolo scorso (Manzi, 1989). Sono state abbandonate anche la coltivazione di specie fruttifere minori come l’azzarolo (Crataegus azarolus) di cui nel Teramano erano conosciute due distinte varietà (Quartapelle, 1853).

Forme di paesaggio

Molte delle antiche varietà colturali, sopra menzionate, risultano legate a forme di agricoltura tradizionali ancora praticate nei terreni marginali. In particolare per la coltivazione della solina, nei terreni montani dell’area degli Altipiani Maggiori, non si fa uso né di diserbanti tantomeno di concimazione chimica. All’interno di questi campi si rinvengono numerose archeofite ormai divenute molto rare altrove come Centaurea cyanus, Agrostemma githago, Galium tricornutum, Buplerum rotundifolium, Bifora testiculata, ecc. Sulle pendici del Gran Sasso, nonché in altre conche intramontane aquilane, i campi coltivati
a cereali o a leguminose ospitano specie commensali rarissime, note nel territorio italiano solo in poche stazioni come nel caso di Falcaria vulgaris, Ceratocephala falcata, Adonis flammea subsp. cortiana (Tammaro, 1995) o Androsace maxima subsp. maxima, che risulta persino inclusa nella Lista Rossa delle Piante d’italia (Conti etal., 1997).
Molti dei paesaggi antropogenici più belli e suggestivi della regione sono legati proprio alla coltivazione di antiche varietà agronomiche locali e a forme colturali tradizionali. E’ il caso dei campi aperti del Gran Sasso (Farinelli, 1981), espressione di una gestione collettiva del territorio e mediata tra l’agricoltura e la pastorizia, dove tuttora si coltivano cereali e leguminose adattate alle quote elevate ed ai terreni più magri. Inoltre i mandorleti delle conche aquilane (Console et. al.,1991) o delle pendici del Monte Velino e della Valle dell’Aterno che offrono nel periodo della fioritura uno spettacolo unico, anche in considerazione del contesto ambientale entro cui si collocano. Spesso sotto i mandorli, come nel caso dell’Altopiano di Navelli, vengono praticate antiche e preziose colture come quella dello zafferano.
Gli estesi uliveti nell’area Vestina, che conferiscono una profonda dolcezza al paesaggio collinare, sono costituiti da olivi piccoli e contorti appartenenti alle antiche varietà locali come la dritta, il tortigllone, la carbonchiola, ecc. Nel Chietino il paesaggio agrario, che Stendhal paragonava a quello toscano, è caratterizzato invece dalla gentile, una varietà di ulivo largamente coltivata nella provincia ed in particolare sul pianoro tra Casoli e Guardiagrele, dove sorgeva l’antica città sannitica di Cluviae. L’Abruzzo è la regione ove si incontrano due antichi modi di coltivare il vigneto: quello etrusco in cui la vite si “marita” all’albero (alberata) ed in particolare all’acero campestre, e quello di origine grecolatina con la vite coltivata ad alberello e sorretta da canne. L’alberata è diffusa principalmente in Toscana, Umbria e Marche. In Abruzzo si riscontra solo nella provincia teramana, ai confini con le Marche, dove tuttora sopravvivono lembi residui delle antiche alberate nelle zone collinari e montane di Civitella del Tronto, Campli, ecc. I vigneti con viti governate ad alberello e sorrette da canne,
invece, si localizzano nelle restanti aree della regione. Attualmente vigneti di questo tipo si rinvengono sempre più rari nelle fasce basso-montane della provincia di Chieti. Sia nelle ultime alberate che nei superstiti vigneti bassi con vite governata ad alberello, si sono conservati molti degli antichi vitigni. Infatti alcuni vigneti tradizionali, a detta dei proprietari, sono vecchi di quasi cento anni, forse impiantati prima della diffusione della fillossera e della peronospora che distrussero buona parte dei vigneti europei.

Il ruolo dei parchi e delle riserve naturali

L’Abruzzo è la regione europea con la più alta percentuale di territorio protetto. Infatti i tre parchi
nazionali (Parco Nazionale d’Abruzzo, PN. della Majella, PN. del Gran Sasso e Monti della Laga), unitamente ai parchi regionali, riserve regionali e oasi del WWF interessano oltre il 30% dell’intero territorio regionale. All’interno delle aree protette non si riscontrano solo ambienti naturali, come foreste, praterie primarie, pareti rocciose ecc., ma anche ecosistemi di origine antropica come i pascoli secondari che occupano superfici molto ampie e non di rado anche campi e coltivi.
I parchi e le riserve, oltre che svolgere una fondamentale ed irrinunciabile azione di tutela e salvaguardia del patrimonio faunistico, vegetale, e degli ecosistemi in generale, possono rivestire un ruolo rilevante nella salvaguardia delle antiche varietà colturali e, più in generale, nel mantenimento della diversità agronomica, qualora il loro territorio risulti tuttora interessato a forme di agricoltura tradizionale. La necessita di preservare il patrimonio agronomico non è legata solo a mere motivazioni di genetica agraria, di per sé già molto importanti, ma anche a diversi ed ugualmente importanti aspetti. In particolar modo la disponibilità delle varietà colturali locali, adattate alle condizioni ambientali e con alto grado di rusticità, garantisce il mantenimento di quelle forme più caratteristiche ed esclusive del paesaggio agrario di cui si è accennato in precedenza. Inoltre la conservazione e la ridiffusione di queste varietà ad alta rusticità è un presupposto importante per il mantenimento e la promozione di un modello di agricoltura biologica e compatibili con le finalità che persegue un’area protetta. La tutela delle varietà agronomiche locali e in generale dei prodotti tipici di un’area, garantisce il mantenimento anche di una diversità e ricchezza culturale locale che proprio nei cibi tradizionali ha una delle manifestazioni più tangibili ed apprezzate.
Non va nemmeno sottovalutato il ruolo fondamentale che, spesso, le colture tradizionali rivestono per la conservazione di molte specie selvatiche sia floristiche che faunistiche. E’ il caso delle numerose piante infestanti le colture tradizionali a cereali o a leguminose di cui si è accennato in precedenza e che, oltre ad un indubbio valore fitogeografico, presentano anche un importanza culturale in quanto spesso si tratta di piante care alla tradizione popolare poiché cariche di significati magici o rituali, o più semplicemente utilizzate nella vita quotidiana come alimento supplettivo o per curare le malattie. Inoltre molte specie animali, spesso rare o in declino, risultano strettamente legate a particolari forme colturali e paesaggistiche, come nel caso dell’averla capirossa (Lanius senator) la cui presenza era correlata alle alberate nell’Italia centrale (Manzi, Perna, 1990), oppure le comunità ornitiche dei campi aperti del Gran Sasso, nello specifico diverse entità originarie degli ambienti steppici strettamente dipendenti dalle pratiche agronomiche. Il recupero e diffusione del grano marzuolo, ad esempio, potrebbe avere effetti positivi sulle comunità animali ed in particolare ornitiche. Trattandosi di un cereale a semina primaverile, i campi non vengono arati in agosto o settembre come avviene normalmente, pregiudicando la disponibilità alimentare nel periodo autunnale per molti animali, specialmente per gli individui giovani. Inoltre la mietitura viene posticipata, in questo modo si garantisce per un periodo più lungo l’ambiente di nidificazione e di alimentazione per diverse specie.
Nell’ottica di un programma di salvaguardia dei patrimonio agronomico, le aree protette ed in particolare i parchi nazionali e regionali, possono attivare una serie di interventi fra loro complementari. In primo luogo il censimento, catalogazione e tipificazione delle varietà colturali diffuse e caratteristiche nell’area di loro competenza.
L’allestimento di un giardino botanico finalizzato alla coltivazione delle varietà colturali locali al duplice scopo di conservazione ex situ di queste piante e di divulgazione della problematica inerenti la conservazione del patrimonio agronomico.
Organizzazione e gestione di una banca del seme, di una spermoteca o comunque un centro per la raccolta del germoplasma da localizzarsi preferenzialmente presso il giardino botanico.
lncentivi agli agricoltori ed aziende agrituristiche per facilitare la diffusione e la coltivazione sul territorio delle varietà colturali in via di scomparsa. in particolare le aziende agrituristiche potrebbero predisporre anche dei campi dimostrativi e didattici sulle antiche varietà locali.
Sono questi gli interventi minimi che potrebbero garantire la conservazione di un patrimonio non solo agronomico, ma più in generale culturale, unico, e per certi versi, irripetibile.

venerdì 9 novembre 2007

Campotosto e parco nazionale d'Abruzzo.

Per la rubrica "raccontalo con una foto", il caro amico Enzo (invito quanti ancora non l'avessero fatto a visitare il suo blog sugli orsi) mi manda queste fantastiche foto scattate sul lago di Campotosto, nel parco nazionale del Gran Sasso e dei monti della Laga la scorsa settimana.



Le prime due sono del lago di Campotosto in autunno, la terza è una vista del massiccio del Gran Sasso dal valico delle Capannelle.La quarta è stata scattata nel Parco d’Abruzzo, proprio dove hanno trovato gli orsi uccisi, la località si chiama “acqua ventilata”.

domenica 4 novembre 2007

Sul monte Cimone, nel parco del Frignano (Modena)

Il monte Cimone è la montagna di riferimento del parco del Frignano ed è una delle aree sciistiche più importanti dell'Emilia Romagna.
Il Parco del Frignano si trova in provincia di Modena sull'appennino e si estende per circa 15.000 ettari sul territorio dei Comuni di Fanano, Fiumalbo, Frassinoro, Montecreto, Pievepelago, Riolunato e Sestola.
L’area protetta comprende tutto il tratto di crinale modenese, offrendo ambienti molto diversificati e di notevole valore naturalistico, spaziando dai 500 metri s.l.m. sino agli oltre 2000 metri.
Il comune di riferimento del parco è Pavullo nel Frignano (16000 abitanti circa), che sorge a 686 metri s.l.m. è situato a metà strada tra la pianura e l'alto Appennino modenese ed è facilmente raggiungibile sia da Modena che da Bologna percorrendo la Via Estense. Si connota come il comune più vasto ed importante dell'Appennino modenese, una vera e propria "città montana", ove ha sede la Comunità Montana del Frignano.
L'escursione più bella dal punto di vista paesaggistico è raggiungere la vetta del monte Cimone a 2165 metri di altezza. Il Tempo di percorrenza è di crca 6-7 ore tra andata e ritorno, con dislivello di circa 1000m. Risulta pertanto impegnativo.
Il Cimone è la montagna più alta dell’Appennino settentrionale. Si erge su una dorsale isolata rispetto allo spartiacque appenninico dominando l’intero territorio del Parco. Si trova vicino al confine con la provincia di Pistoia in Toscana. L’itinerario consigliato per la salita è piuttosto lungo e faticoso, ma molto panoramico e attraversa ambienti intatti e rappresentativi dell’area. Il percorso ha inizio da Bellagamba, piccolo abitato nel comune di Fiumalbo. Si segue il tracciato fino al primo bivio, da qui si prosegue a sinistra sul sentiero CAI 493, fino ad incontrare il Rio Acquicciola, guadato il quale ha inizio la lunga salita nel bosco verso la dorsale sud ovest del Monte Lagoni, dove, negli ampi terreni aperti che si alternano ai boschetti, nella tarda estate è possibile osservare bellissime fioriture di calluna e carlina bianca. A circa 1700 mt. di altitudine il sentiero esce dal bosco, mostrando il tipico ambiente di alta quota: splendide praterie che si alternano a fasce rocciose. Il percorso diventa qui estremamente panoramico, l’ambiente è alpestre e severo, il cono del Cimone incombe, ormai vicino; a sud il monte Libro Aperto presenta, evidentissime, le tracce degli antichi ghiacciai: circhi, pianori, accumuli morenici. Si prosegue verso nord sul sentiero CAI 447 su un terreno argilloso e nerastro, si sfiora la sommità del Monte Piazza prima di incontrare nuovamente le rocce arenacee nella cresta rocciosa che sale ripidamente fino al Monte Cimoncino. Da qui al Cimone è un breve saliscendi fino alla cappella dedicata alla Madonna della Neve. Il paesaggio è di una vastità sconcertante. In una giornata limpida si potrà abbracciare con lo sguardo tutta l’Italia settentrionale e gran parte di quella centrale, comprese le isole dell’arcipelago toscano e la Corsica; con l’aiuto di un binocolo la vista si estenderà fino alle coste dell’Istria, alle cime alpine e a sud est fino al Monte Amiata e al Terminillo. Per il ritorno si presentano due alternative: la prima consta nel percorrere a ritroso l’itinerario dell’andata; la seconda, consigliata a forti camminatori, consiste nell’imboccare il sentiero CAI 489 che sale da Doccia che, dopo una breve discesa nel bosco, si apre nella stupenda conca del Padule il Piano con i suoi numerosi ruscelli e i grandi faggi sopravvissuti al tempo e alle intemperie. Qui il sentiero diventa un viottolo ben marcato che scende rapidamente verso Doccia lungo una ripida e sassosa pista da sci di scarso valore paesaggistico.

sabato 3 novembre 2007

Il sentiero della Pace: dalla capitale all'appennino romano

Ho scoperto questa bellissima iniziativa della formazione di un itinerario di circa 80 km che collegherà Roma a Subiaco, passando per i monti Prenestini e sublacensi, con tanto di tappe in alcuni luoghi di interesse storico artistico, oltre che paesaggistico, come paesini medievali incantevoli, monasteri, conventi ed eremi di montagna. Tale sentiero è intitolato sentiero della pace. Si svolge tutti gli anni ad ottobre e quest'anno si è svolta la terza edizione.
Vi posto l'articolo integrale di Antono Citti dal sito abitare a Roma.
Sicuramente un'ottima occasione per tanti appassionati per organizzarsi in tutta comodità da Roma e provincia un vero e proprio pellegrinaggio spirituale (la zona in questione è ricca anche di luoghi di culto, come la SS Trinità di Vallepietra o i monasteri di Subiaco ma anche dei monti vicini) o più semplicemente per una scampagnata fuori porta con amici per passare qualche notte accampati a contatto con la natura.
Allora controllate l'equipaggiamento ed organizzatevi.


“Il sentiero della pace nella provincia di Roma: un corridoio per l’ambiente, la cultura e la pace” di circa 80 km di cammino è un itinerario che collega Roma a Subiaco attraverso la campagna, le colline e le montagne della provincia di Roma giungendo in luoghi di grande valore spirituale e pacifista, ambientale e storico, dalla modernissima Chiesa del Millennio a Tor Tre Teste all’antichissimo tempio di Giunone a Gabii, l’antica via Prenestina e il percorso degli acquedotti di Gallicano, il rupestre santuario della Mentorella sul Monte Guadagnolo, la pacifica cittadina di Pisoniano e il ritiro di S. Francesco a Bellegra, gli antichi borghi di Roiate e Affile per finire al Convento di S.Francesco e ai celebri Monasteri Benedettini di Subiaco.

Il sentiero è percorso in sette giorni ogni anno da un nutrito ed organizzato gruppo di escursionisti fino ad oggi ad ottobre, subito dopo la festa di S. Francesco ed è previsto che ad ogni tappa siano ricevuti da una delegazione comunale e che la serata venga curata da una associazione locale, con discussione su argomenti di interesse ambientalistico pacifista , culturale e di folklore locale, spesso con regalo di libri e opuscoli sul tema.

Il progetto concretizzato dalla Federazione Italiana Escursionismo in collaborazione con il Centro Educazione Ambientale del 7° Municipio di Roma è stato finanziato dall’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Roma ed è dedicato all’Accompagnatore scomparso Salvatore Ricci e denominato Sentiero della Pace a sottolineare i valori di scambio di amicizia tra le persone ed i principi della convivenza pacifica.

Nel 2007 erano presenti tra gli escursionisti associati e responsabili del Servas, associazione che promuove l’ospitalità solidale, che cercherà di coinvolgere persone e famiglie della zona per renderle partecipi, facendo inoltre aderire strutture che possano ospitare i gruppi in maniera del tutto gratuita, nello spirito di collaborazione tra le persone ed i popoli. Erano anche presenti i giovani del movimento YAP, Youth Action for Peace, che quest’anno e per la terza volta è intervenuto, inviando ragazzi giunti da vari paesi del mondo come Corea, Palestina, Turchia, Ungheria, Spagna, per portare il loro aiuto, che con grande spirito di solidarietà e nel nome della pace hanno curato la manutenzione del percorso naturalistico, che nel 2008 giungerà fino al paese di montagna di Jenne, nel cuore del Parco Regionale dei Monti Simbruini.

Chi desidera informazioni può indirizzarsi alla segreteria della FIE Lazio: segreteria@fielazio.it Tel 06 7211301 dal martedì al venerdì dalle 17 alle 20

giovedì 1 novembre 2007

Piani di Luzza e Cima Sappada

Un posto molto bello dove sono finito per caso questa estate per lavoro è Cima Sappada. Io sono andato lì come medico di una colonia di bambini simpaticissimi, che sono riusciti, accompagnati dagli istruttori è ovvio, a fare le imprese più disparate, da arrampicare, a fare canoa, escursioni anche impegnative, dormire in rifugi in alta montagna,andare a cavallo, nonchè calcio,basket, piscina ecc..., vista la disponibilità di numerosi campi.
Sappada è sulle Dolomiti venete, in provincia di Belluno sul confine con il Friuli Venezia Giulia, mentre Piani di Luzza è a pochi km di distanza, in Friuli Venezia Giulia, provincia di Udine. Sono immerse in un contesto tipico alpino, pur non essendo ad altezze esorbitanti (1000m sul livello del mare).
Piani di Luzza è meno sfruttata turisticamente ed è l'ideale per chi ama godersi la montagna in assoluta riservatezza.
Famose per gli impianti sciistici d'inverno, Sappada ha impianti per sci alpino con numerosi impianti di risalita, Piani di Luzza invece ha un impianto molto grande per lo sci di fondo ed il tiro al bersaglio, in una piana nel bosco.
D'estate queste località riservano magnifici scenari, con alpeggi, pascoli, malghe,rifugi, tutti rigorosamente adornati con gerani multicolori. L'unico problema è il tempo, molto variabile, sono frequenti gli acquazzoni e le temperature possono essere piuttosto fresche anche in piena estate.
Belle anche le camminate e le falesie per chi ama arrampicare, nonchè i torrenti su cui fare rafting.
Inoltre passeggiando nei boschi mi è capitato di trovare numerosi funghi porcini, mote specie di alberi, lamponi, fragoline di bosco ed orchidee selvatiche molto belle. Quindi molto e lo da un punto di vista naturalistico. In effetti le vie escursionistiche panoramiche sono piuttosto impegnative e non proprio alla portata di tutti, essendo le montagne molto ripide e soprattutto rocciose.
Ci sono numerosi torrenti e gole scavate dall'acqua, con cascatelle tipiche, molto bello ed è' possibile recarsi alle sorgenti del fiume Piave lungo, la Val Selis, ai piedi del monte Peralba.
Suggestive come sempre in questi paesini, sono le chiesette,come quella di S.Margherita di stile barocco, costruita nel 1779 contenente alcuni affreschi di particolare pregio, situata in borgata Granvilla.
Merita una visita anche il paesino di Forni Avoltri (UD) e le malghe che negli intorni,dominata dalle cime più alte delle Alpi Carniche, il Monte Coglians con i suoi 2780 m di altitudine è la vetta più elevata.

Raccontatelo con una foto

Invito i lettori del mio blog a spedirmi foto di escursioni o di panorami naturalistici o fenomeni atmosferici particolarmente significativi con allegato un breve racconto, spiegazione, aneddoto, curiosità del posto, descrizione di un evento particolare,ecc... .
Speditele all'indirizzo e-mail emiliano.rossi@micso.net
Aspetto vostre foto.

mercoledì 31 ottobre 2007

I sergenti.

Oggi esco un pò fuori dal tema del mio blog. Ma il bello di avere un blog è quello di poter esprimere emozioni e sensazioni. E le emozioni sono quelle che ieri sera mi ha trasmesso Marco Paolini nella sua rappresentazione teatrale "il sergente",tratto dal racconto di Mario Rigoni Stern "il sergente nella neve" che racconta della ritirata drammatica dei nostri soldati dalla campagna di Russia nell'inverno 1943, durante la seconda guerra mondiale.
Ho avuto la possibilità di vedere dal vivo il suo spettacolo, andato in onda in diretta su la7, nella suggestiva cornice della cava Arcari di Zovencedo, sui Colli Berici vicino Vicenza! Il tempo e l'atmosfera erano adatte al tema dello spettacolo. Pioggia battente, vento freddo, nebbia ed una lunga passeggiata nel bosco al buio, illuminato dalle torce portatili, in un sentiero reso una poltiglia di fango grigiastro dalla pioggia. Tutto intorno il rumore della pioggia e i profili delle colline e più in là le luci dei paesi del vicentino a fondo valle.
Giunti alla cava siamo stati accolti da una tazza di vino caldo e da croste di pane bruscato e parmigiano. La cava, scavata nella roccia arenaria, è stata lavorata in un periodo precedente a quello delle macchine e delle concezioni attuali, per cui ha un aspetto irregolare, con colonne di pietra rigate che si alzano fino al "soffitto" calcareo, imponenti con luce irregolare, diametri irregolari, che davano l'aspetto di un tempio preistorico al palcoscenico allestito lì. E poi l'acqua. Tutta la cava è un serbatoio di acqua verde che prende i riflessi della roccia. E la si sente scorrere tutto intorno. La si sentiva correre, incanalarsi e sgorgare nel bacino artificiale della cava.
Quindi tutti i preparativi per la diretta TV e poi l'arrivo di Mario Rigoni Stern, lui l'autore, ma prima di tutto il protagonista di questa triste avventura. L'applauso vero di tutto il pubblico, quindi l'abbraccio con l'attore, Paolini. Poi le spiegazioni e infine la diretta. 2 ore incolati sulle panche a bocca aperta, nonostante la scomodità, nonostante il freddo, nonostante la pioggia, tutti impassibili ad ascoltare una storia di altri tempi, in cui le guerre si facevano corpo a corpo, in cui i ragazzi di 20 anni invece di pensare a divertirsi e a rimorchiare, erano spediti in culo al mondo a sparare alla gente per non finire ammazzati. E quelli che non finivano vittima dei proiettili, li finiva il freddo e la fame della steppa russa. Ed anche quelli che sono tornati, come potranno mai aver condotto una vita normale. Dopo quello che hanno visto, dopo quello che hanno subito, dopo quello che hanno fatto! Dopo esser partiti lasciando un paese normale, in pace e ritornati in un paese, distrutto dalla guerra. Sempre loro hanno dovuto prendere e rimboccarsi le maniche ancora una volta e ritirarlo su. Ridargli una dignità, una governabilità, una costituzione! Dopo tutto questo ridargli una civiltà e portarcelo oggi a noi così come lo vediamo. A loro. A questi vecchietti, che sembra siano stati vecchi sempre e sembra non capiscano più il mondo in cui vivono, alla loro generazione distrutta per sempre dalla follia, a loro che non hanno avuto la libertà di essere giovani allora e che non hanno la liberà della loro vecchiaia adesso, a loro rinchiusi nei campi di concentramento a combatter con i russi allora, rinchiusi oggi negli ospizi a combattere con le badanti russe oggi, in una società che non li riconosce più, che non gli riconosce il valore di quello che hanno fatto, a tutti questi piccoli eroi che ci passano sotto gli occhi ogni giorno va il mio grazie ed il mio pensiero.
Emiliano.

martedì 30 ottobre 2007

Animali selvatici...alle porte

Col titolo in questione, un po' ambiguo per la verità, volevo affrontare un tema che chi vive in campagna, magari spesso si trova ad affrontare e del quale spesso può trovarsi impreparato.
In inverno è facile trovarsi in giardino animali selvatici in difficoltà, che arrancano per trovarsi un pasto. Spesso si tratta di ricci o di piccoli volatili in difficoltà. Non tutti sanno come affrontare la situazione. Una cosa molto semplice che si può fare per questi animali è dare loro del cibo.
Il riccio per esempio è un animale notturno e si muove soprattutto alla ricerca di piccoli insetti o di frutta di stagione, come le mele. Siccome il periodo riproduttivo va da giugno a settembre, può succedere che i cuccioli più piccoli non ce la facciano ad avere uno sviluppo completo entro la fine dell'autunno, trovandosi così in difficoltà l'inverno. Si possono aiutare fornendo un riparo sicuro magari nei catasti di legna o costruendo delle piccole tane con le tavole, consapevoli però che non sono animali stantii e quindi lasceranno il riparo non appena saranno in condizioni migliori e comunque se vi è la presenza di altri animali domestici che possano disturbare la loro quiete, loro tenderanno a andare via. Da mangiare possiamo dare dei piccoli pezzettini di carne fresca o degli spicchi di mela non sbucciata. In inverno i ricci rallentano molto il loro metabolismo e quindi tendono a muoversi meno. Non disturbateli, perchè creerete loro solo stress inutile.
Oltre i ricci spesso ci si può imbattere in uccellini infreddoliti o affamati. La cosa migliore da fare è dargli dei pezzettini di frutta di stagione oppure delle sementi piccole o delle larve per i meno schizzinosi! Si possono creare dei veri e propri mangiatoie per uccellini fatti con un sottovaso un un bastone, da appendere su un albero o in balcone o sul tetto, nel quale riporvi quanto detto prima, cosicché i volatili possano andare a rifocillarsi. In ogni caso è bene sapere che gli uccelli si nutrono di bacche dei rovi e cespugli, frutti secchi, castagne, semi, semini delle pigne di abete, e tutto quanto boschi e montagne sono in grado di offrirgli, per cui rispettando questo habitat lascerete le riserve di cui hanno bisogno per sopravvivere in inverno.
Può capitare di imbattersi in degli scoiattoli. In quel caso un po di frutta secca come noci, bacche, ghiande, castagne, nocciole, ecc..., sono un sicuro ristoro per questi piccoli animali che hanno bisogno di molte calorie per superare l'inverno.
Per qualsiasi tipo di informazione o se vi imbattete in animali più difficili da accudire come rapaci , volpi, tassi ecc..., c'è un organizzazione che si occupa della salvaguardia degli animali selvatici, che ha il suo centro a Modena e altri centri minori in provincia tra Modena e Reggio Emilia, che si chiama "il pettirosso" , gestito da volontari che risponde in caso di bisogno ai numeri 339-8183676 oppure 339-3535192.

Autunno, tempo di castagne

L'autunno si sà, con i primi freddi, le piogge abbondanti e le giornate più corte, ci dà quel senso di torpore e di voglia di stare a casa a poltrire, magari di fronte ad un camino acceso. Però ci regala anche molti frutti e prodotti tipici, come bacche, noci, nocciole, funghi, olive, olio, vino nuovo, miele e castagne appunto!
Il castagno è un albero molto antico che cresceva su una vasta area che comprende tutta l'Europa meridionale, alcune località dell'Asia Minore, la costa settentrionale della Turchia, la Grecia, l'Algeria, la penisola balcanica, l'Austria fino ai Carpazi. Può essere trovato fossile anche in Germania, Inghilterra e Svezia, ma in queste regioni è stato importato dall'uomo. Ne esistono numerose varietà. Il castagno europeo e' una pianta longeva che può vivere oltre i mille anni. Il suo sviluppo è inizialmente molto lento e raggiunge il suo splendore vegetativo intorno ai 50 anni. E' una pianta che tende a crescere arrivando ad altezze di 30 metri, con tronchi di circonferenza talora imponenti, chioma espansa e molto ramificata, foglie caduche, di forma affusolata, a margine seghettato, di colore verde intenso e lucide, più chiare nella parte inferiore. Le infiorescenze maschili sono rappresentate da spighe lunghe 10-20 cm di color giallo-verdastro. Quelle femminili sono costituite da fiori singoli o riuniti a gruppi di 2-3 posti alla base delle infiorescenze maschili. La fioritura si ha in piena estate. Ama i climi temperati e gli spazi illuminati dal sole, pur sopportando freddi invernali anche molto intensi.
Predilige i terreni acidi profondi, fertili e ben drenati e non molto pietrosi.
I suoi frutti, sono le castagne che si distinguono dai marroni, perchè di origine più selvatica, sono piccole e in genere in numero di 3 in un solo riccio. I marroni invece sono frutto di anni di coltivazioni e allevamento e sono più grandi e sono singoli in ogni riccio.
Questo è il periodo dell'anno in cui si raccolgono, per cui individuata la zona più vicina a voi ricca di boschi di castagno e armati di buona pazienza, di scarponi per il fango, ceste e io consiglio un berrettino che protegga da eventuali cadute di ricci sulla testa molto sgradevoli, mettiamoci in marcia per una bella raccolta o se non altro approfittiamone per una bella passeggiata nel bosco ossigenante e riposante alla riscoperta di queste tradizioni un po ancestrali.
Una volta raccolte la conservazione delle castagne prevede un trattamento con messa a mollo in acqua per una settimana dieci giorni circa, dopodiché una buona asciugatura e quindi la conservazione in un luogo fresco e asciutto in sacchi o ceste in cui sia possibile il passaggio di aria. In questo modo possono resistere per quasi tutto l'inverno.
Ci sono molti modi per cucinarle, come per esempio bollite oppure fatte essiccare e macinate per farne della farina con la quale è possibile confezionare torte (castagnaccio), frittelle di castagne, crepes, mousse, polenta. Personalmente però le adoro arrostite sul fuoco in una padella bucherellata, ma in mancanza di camino vanno bene anche al forno. La cottura al forno tende ad essiccarle molto, rispetto al fuoco diretto, per cui è consigliabile lasciarle cuocere ad una temperatura di 220°C per una mezz'ora o meno a seconda della grandezza. In genere accompagnare le castagne arrosto con un bicchiere di vino rosso giovane, fruttato e non molto forte, rende il pasto molto più ricco e saporito.
Non tutti sanno che le castagne arrosto restano spesso sullo stomaco per via della così detta reazione di Maillard (dallo scopritore della reazione) e cioè una trasformazione delle proteine che avviene in tutti gli alimenti che contengono zucchero (soprattutto glucosio) e proteine, ed è favorita da calore, luce, metalli, ambiente leggermente basico.
La reazione di Maillard dà origine a composti di varia natura, che a seconda della situazione possono dare caratteristiche positive o negative all'alimento.
Nel latte sterilizzato, per esempio, contribuiscono a dare lo sgradevole sapore di cotto e il colore grigio.
In altri casi, come nel pane tostato, nel caffè e nell'orzo tostato sono responsabili dell'aroma piacevole di questi alimenti.
Dal punto di vista nutrizionale, le caratteristiche sono tutte negative, sebbene il fenomeno, generalmente, interessa solo una piccola parte dell'alimento e di fatto, quantitativamente, può essere trascurabile. Si ha infatti la perdita dell'amminoacidi lisina; l'effetto (presunto da alcuni autori) di alcuni prodotti intermedi della reazione che inibirebbe l'assorbimento intestinale di amminoacidi; l'indurimento del prodotto e la diminuzione della digeribilità delle proteine coinvolte dalla reazione.
La reazione di Maillard avviene anche nelle cellule vive ed è un fattore che determina l'invecchiamento delle cellule. Infatti i prodotti terminali della reazione si accumulano nei tessuti e ne alterano l'elasticità, a causa dei legami che formano con le molecole di collageno.
A questo punto non mi resta che salutarvi e augurarvi buon appetito!

lunedì 29 ottobre 2007

Buona prospettiva autunnale per le nostre montagne

Sembra proprio che la stagione stia piegando verso un buon apporto idrico con piogge e neve per alpi e appennini.
porterà ancoraGià la settimana scorsa si sono avute molte nevicate soprattutto in appennino, e poi molte piogge e ancora nevicate sulle alpi. Ora questa breve parentesi di bel tempo fa da preludio ad una nuova fase di maltempo che molte piogge e molta neve sulle alpi soprattutto questa settimana e poi ancora neve anche in appennino la settimana prossima.
Inoltre, dando uno sguardo in Europa, sembra ci sia un notevole raffreddamento del comparto russo-scandinavo, il che fa presagire un inverno piuttost freddo, se si dovesse mantenere questo il trend.
Staremo a vedere.
Buon proseguo di stagione e cominciate a scioinare tavole e sci!!!
Emiliano











Webcam del passo dello Stelvio e mappe delle precipitazioni e della situazione barica prevista per domani sera

lunedì 8 ottobre 2007

Fondi stanziati per la stazione sciistica di Monte Livata. Contrario il WWF Lazio

I Monti Simbruini nel Lazio vedranno presto il rilancio del territorio ai fini turistici. In particolare il programma, presentato alla direzione regionale Ambiente, prevede un investimento di 900mila euro sul recupero della stazione sciistica di Monte Livata. Altri 500mila euro saranno invece investiti per il recupero della fauna selvatica del parco, mentre altri 500mila euro saranno destinati a sopperire alle carenze idriche estive dei comuni ricadenti nel territorio protetto.

A questo finanziamento fa eco Raniero Maggini, Presidente del WWF Lazio che invece esprime riserve sui lavori per la stazione sciistica di Monte Livata (che è a quote non molto alte tra i 1400 e i 1800m, non proprio il massimo visti anche gli inverni tutt'altro che nevosi che si sono susseguiti in questi ultimi anni) :“Da quanto affermato dall’Assessore Rodano si capisce che lo stesso Comune di Subiaco non è stato in grado di presentare alcun progetto finanziabile alla Regione Lazio, per cui i fondi che si vorrebbero salvare dalla perenzione appaiono viceversa destinati a svanire. Questo sottolinea che le passate dichiarazioni del WWF circa la necessità di ‘decostruire Livata’ come invece stanno facendo i francesi sulle Alpi, fra l’altro in situazioni altimetriche e climatiche potenzialmente più favorevoli allo sci da discesa, non era certo una boutade”.“Quanto alle dichiarazioni del Presidente Memeo - conclude il Presidente del WWF Lazio – torniamo a chiederci come possa un Ente Parco, cui compete ad esempio l’emanazione dei nullaosta relativi alle opere da compiere a Monte Livata, diventare azionista o proprietario di impianti di risalita nella stessa località! L’esperienza grottesca dell’adesione al Consorzio Campo Staffi, voluta dal Commissario Abbate (nell’ambito della scorsa legislatura regionale) e che sta costando fior di quattrini all’Ente montano, dovrebbe avere insegnato al neo Presidente del Parco quali sono gli esiti del tutto negativi -oltre che di dubbia legittimità - di operazioni del genere”.





Intanto riporto una dichiarazione scritta molto polemica in merito all'abbandono delle istituzioni locali degli impianti sciistici di un responsabile del sito internet di Monte Livata:

"Alcuni giorni fa vi è stato un incontro tra cariche e rappresentanti di pubbliche e private amministrazioni per valutare la possibile apertura degli impianti scioviari di Livata la prossima stagione. Come tutti sapete, quel tipo di attrezzature è vincolato ad una scadenza fissa nel tempo, dopo di che è necessaria la loro sostituzione. I trenta anni di vita di Monna sono scoccati da due anni ed è tempo di rinnovo, a prescindere dalle condizioni dell'impianto stesso. Considerando l'abbandono e il "menefreghismo" che da anni aleggia sulla nostra montagna si è arrivati al capolinea senza aver mosso nulla. Lo scorso inverno avete potuto girare sullo skilift grazie ad una proroga, mentre per quello che si approssima si faceva leva su un'ulteriore prolungamento, reso possibile da un eventuale progeto di rinnovo approvato e finanziato, il quale fungeva da "tempi supplementari". Si arriva a fine settembre e si scopre che ...oops!..non c'è niente! Soprattutto il famoso finanziamento di due milioni di euro sembra non esistere, cosa che complica seriamente la proroga da parte della ministero della motorizzazione.Personalmente, senza entrare in discussioni da bar o polemiche con cui potrei riempire una lunghissima pagina(tipo : la 2001?...il comune che fa?....la regione?....il parco che blocca tutto e sempre?..i soldi per la slittinovia?...i politici di tutte le razze?) mi chiedo solo una cosa: PER QUALE MOTIVO, CONSAPEVOLI DI UN PROBLEMA, NON SI CERCA DI EVIDENZIARLO E RISOLVERLO CON TEMPO ANZICHE' ARRIVARE AD OTTOBRE? COLPA DI TUTTI!!!!! Tutto questo non conferma che non scieremo a Livata quest'inverno, ma un bel problema c'è da tempo e quello per risolverlo è poco.La soluzione è fare degli interventi straordinari di costo notevolmente inferiore alla sostituzione, e poi.... tutti a ringraziare qualcuno che ha parlato con qualcun'altro che ha messo buona parola con tizio, per farsi dare il benestare da caio! Intanto GRAZIE!!! (inizio a ringraziare anticipatamente il salvatore della patria di turno)"

Non vorrei che alla fine questa destinazione di fondi si rivelasse uno spreco di soldi per avviare lavori inutili (e magari per far ingrossare qualche portafogli) per il recupero di una stazione ormai poco frequentata e con un futuro non proprio roseo viste le proiezioni climatiche future!


Anche le risorse di 500 mila euro sulle forniture di acqua per i comuni interessati da siccità estiva vorrei capire come verranno spesi e per quali opere. Magari si potrebbe risparmiare invece semplicemente evitando di sprecare l'acqua degli invasi in inverno per sparare neve sulle piste ?! In questa storia sono solidale sia con il WWF che è giustamente preoccupato per un possibile deturpamento ambientale in una zona faunisticamente delicata come quella dei Simbruini, sia con i gestori degli impianti che vivendo di turismo hanno tutte le ragioni di richiedere entro i termini stabiliti dalle leggi che chi fa applicare e rispettare le leggi non abbandoni poi chi di quelle montagne ci vive e magari le cura perchè non vengano abbandonate!

mercoledì 5 settembre 2007

Torcia al plasma in Marsica?

Pubblico questa lettera, inviatami da una lettrice del blog di Avezzano, che mi avvisa del progetto in atto nella Marsica di costruire un impianto di smaltimento dei rifiuti cosiddetto "Torcia al plasma". E' importante essere informati in questo campo perchè lo smaltimento di rifiuti con emissioni di micro polveri, checche se ne dica, rilascia fumi che in un modo o nell'altro interagiscono con il nostro organismo (e questo lo dico da medico!).
Esprimo quindi il mio sentito scetticismo sulle dichiarazioni rassicuranti che spesso non vengono da una base di documentazioni scientifiche sufficienti.


"Ciao a tutti,voglio condividere con voi quello che sta accadendo nella mia bellissima Marsica, zona situata nel cuore dell'Abruzzo, a confine con aree protette come il Parco Nazionale di Abruzzo e Molise, riserva naturale del Salviano e Parco Sirente-Velino.La fondazione MIRROR, creata da MICRON TECHNOLGY, ha chiesto al comune di Luco dei Marsi (l'Aquila) l'approvazione del seguente progetto:"Sistema integrato di servizi eco compatibili" comprensivo di 4 impianti tra cui un sistema di smaltimento dei rifiuti con torcia al plasma. Il tutto peruna estensione di 400 000 mq.Cos'è un impianto di torcia al plasma?Si tratta di una tecnologia innovativa e relativamente pulita, se paragonata ai vecchi e, ormai obsoleti, impianti di smaltimento dei rifiuti. Rispettoad un classico inceneritore, questo impianto utilizza un processo in cui grazie al plasma, ovvero un gas ionizzato che ha la caratteristica di condurre elettricità, i materiali vengono scomposti e ridotti a molecole più semplici e inerti. Le temperature elevate a cui l'impianto lavora eliminandola possibile immissione di sostanze altamente nocive come la diossina, i furani e per quanto riguarda i metalli pesanti, questi vengono vetrificati e smaltiti in altro modo. È da aggiungere ancora che tutto questo processo ci consente di recuperare energia. Ottima cosa vero? Peccato che la storia non ci venga raccontata tutta.Nonostante tutte le belle chiacchiere, rimane il fatto che questi impianti producono fumi che vengono immessi nell'aria e per quanto puliti o innocui possano essere, non è da escludere che le molecole contenute negli stessi possano ricombinarsi con gli elementi e i gas già presenti in atmosfera,innescando reazioni chimiche che possono dar luogo a quello che tecnicamente viene definito inquinamento indiretto. Purtroppo essendo impianti di nuova generazione, non esistono ancora studi scientifici e medici volti a capire quali saranno le reali conseguenze di questi processi di trasformazione.Cari Nonni ricordate quando negli anni '50 venne messo in commercio il DDT?Che grande scoperta fu, ma poi cosa è successo? A distanza di 30 anni questo composto chimico, tanto utile e miracoloso, si è rivelato in realtà una combinazione letale per la salute dell'uomo. Con l'impianto della torcia al plasma succederà lo stesso. Qui si pretende che la Marsica faccia da cavia ai "signori" delle grandi multinazionali. Secondo studi, confermati dal nostro illustre Prof. Francesco Recchia (oncologo), le elevate temperature acui l'impianto lavora fanno si che vengano immesse nell'atmosfera polveri talmente sottili (nanopolveri) che una volta entrate nell'organismo riescono ad attraversare le membrane cellulari e causare gravi danni come malformazioni fetali, gravi allergie e malattie del sangue. Cosa sarà del nostro Fucino? È giusto contribuire ulteriormente al suo degrado? Gli agricoltori non avrebbero più di che lavorare, poiché nessuno comprerebbe più prodotti "altamente inquinati". Teniamo presente che il sito in cui l'impianto dovrebbe sorgere rappresenta una ricchezza da un punto vista storico, non dimentichiamoci dei nostri "Cunicoli di Nerone" testimonianza del grande ingegno romano, o degli scavi archeologici situati nel comune di Luco dei Marsi. Consideriamo anche che la nostra è una zona sismicamente attiva...vi lascio immaginare quali potrebbero essere le conseguenze nel caso in cui si possa verificare un altro evento sismico di rilevante intensità. L'impianto in questione ha dimensioni talmente grandi da renderlo unico al modo, e diverrebbe centro di smistamento dei rifiuti nazionali, ma anche internazionali.Inoltre durante le mie ricerche, ho potuto constatare come impianti di torcia al plasma siano poco impattanti per la comunità, quando le loro dimensioni sono ridotte a qualche centinaio di metri quadri...nel nostro caso, invece parliamo di un impianto che avrà una estensione di 400.000 mq.Le motivazioni per dire di NO all'impianto sono molte ed elencarle tutte in questa mia lettera non è cosa semplice, tuttavia ognuno di voi le troverà e valuterà, ma è chiaro che la prima cosa che ognuno di noi ha a cuore è la salute (la mia zona presenta un elevata percentuale di casi di tumori,teniamo presente che qui abbiamo impianti della portata del Telespazio e la stessa Micron Technology). Quando si parla di progresso, si parla di un qualcosa che deve andare a beneficio dell'umanità. La Marsica è una Terra bella e forte e non dobbiamo permettere che per il benessere di pochi, venga compromesso il futuro nostro e dei nostri figli. Vi prego di sostenerci con ogni mezzo a vostra disposizione.

Ciao a tutti Sefora"