lunedì 24 dicembre 2007
Introdotti altri 9 cervi nel Gran Sasso.
sabato 8 dicembre 2007
Progetto Cerere
Questo il documento presentato da Aurelio Manzi (Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga):
Tutela delle biodiversità colturali e agronomiche: l’esperienza del Parco
Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga
Introduzione
La montagna appenninica negli ultimi decenni è stata teatro di profondi stravolgimenti di carattere sociale e culturale. I flussi migratori delle popolazioni montane, indirizzati nei primi decenni del secolo verso l’America, in seguito nei paesi europei e, successivamente, nelle aree industriali del nord del paese o nelle fasce costiere, hanno determinato lo spopolamento in massa delle terre marginali dell’entroterra, Il processo dell’abbandono produttivo di vastissime aree della penisola italiana è un fenomeno di portata storica. Infatti nella storia della penisola italiana, il processo di abbandono di aree limitate e circoscritte si è verificato di frequente in seguito ad eventi luttuosi quali terremoti, pandemie, guerre, ecc. Al contrario, un fenomeno così ampio e generalizzato nella dimensione spaziale e socio-economica, come quello attuale, nel nostro paese ebbe a verificarsi solo negli ultimi anni dell’Impero Romano ed in particolare in seguito alla caduta dello stesso e successive invasioni barbariche (Sereni, 1982). In quel determinato periodo storico buona parte del territorio italiano tornò a inselvatichirsi; si assistette al fenomeno di “reazione della foresta” e all’affermarsi del paesaggio del “saltus”, ossia dei terreni incolti ed abbandonati. Lo stesso paesaggio che, almeno nelle aree collinari e montane della penisola, oggi si sta riproponendo con forza.
L’abbandono di vaste aree montane e alto-collinare da parte delle tradizionali attività umane ed in particolare quella agricola, oltre a molteplici ripercussioni sull’aspetto paesaggistico del territorio, nonché sui diversi ecosistemi secondari, sta determinando la scomparsa di moltissime antiche varietà colturali ivi sopravvissute ai cambiamenti tecnologici e sociali avvenuti nei decenni passati nelle fasce agricole più produttive della costa e della bassa collina. Stiamo così assistendo ad un allarmante fenomeno di erosione del patrimonio agronomico che non trova precedenti in passato. Già risultano estinte nel territorio abruzzese diverse varietà colturali locali, altre avranno la stessa sorte nel giro di qualche anno. E questo un fenomeno purtroppo comune ad altre regioni italiane ed europee. In Italia, a titolo di esempio, fino agli anni ‘20 erano state censite oltre 150 varietà di grano attualmente ridotte solamente a qualche decina (AA.W, 1991).
Le antiche varietà colturali
L’Abruzzo, quantunque localizzato al centro della penisola italiana, è una terra isolata, rispetto alle regioni circostanti, da montagne altissime che come ebbe a scrivere Silone “. ..sono i personaggi più prepotenti della vita abruzzese”. Non è un caso che Boccaccio nel suo Decamerone faccia dire a Calandrino, in riferimento ad una terra lontanissima e mitica, “più in là che in terra d’Abruzzo”.
L’isolamento geografico e la presenza di grandi complessi montuosi, inframezzati da conche ed altopiani, hanno giocato un ruolo decisivo nella selezione di forme colturali a diffusione prettamente locale. Il mantenimento di varietà colturali molto antiche è la conseguenza anche dell’attaccamento delle popolazioni, almeno fino a qualche decennio addietro, alle tradizionali forme economiche così magistralmente descritto da Silone: “Gli Abruzzesi sono rimasti stretti in una comunità di destino assai singolare, caratterizzata da una tenace fedeltà alle loro forme economiche e sociali anche oltre ogni pratica utilità, il che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto che il fattore costante della loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi, la natura”. Alcune di queste colture tipiche sono conosciute abbastanza diffusamente, in conseguenza del loro carattere originale ed esclusivo, come nel caso dello zafferano dei Piani di Navelli (Tammaro, Di Francesco, 1978) o dell’aglio rosso di Sulmona. Altre colture, in particolare varietà od ecotipi a diffusione locale, risultano sconosciuti, spesso anche nell’ambito della stessa regione. I cereali sono, tra le specie coltivate, quelle più importanti per il loro elevato valore nutrizionale e facilità di conservazione. Indubbiamente,
una delle varietà più interessanti ed antiche di grano tuttora presenti in Abruzzo è la solina. Si tratta di un grano tenero aristato che gli agronomi del secolo scorso individua-vano come Triticum hybemum.
Probabilmente la solina è da riferire all’antica siliginis di cui parlano sia Columella, nel De re rustica, che Plinio, nella sua Historia naturalis, e dalla quale si otteneva un ottimo pane. La consapevolezza che si tratta di un grano antico può essere ravvisato anche nei detti popolari locali: “Ogni grano torna a solina — La solina è la mamma di tutti i grani”.
La solina un tempo era diffusa in buona parte dell’Abruzzo (Del Re, 1835) ove erano conosciute anche diverse varietà locali (per es. a Castiglione Messer Marino solina nustrane, solina prandogne). Attualmente la sua coltura viene praticata quasi esclusivamente nell’Altopiano delle Cinquemiglia ad un’altitudine di circa 1300 m ove, insieme alla segala, risulta l’unico cereale in grado di garantire il raccolto a quote così elevate. Piccoli campi coltivati a solina si rinvengono anche nella zona di Pizzoferrato, nell’area dei Monti Pizzi, dove questo cereale viene seminato per esclusivo uso famigliare poiché, a detta dei contadini, fornisce un pane ottimo.
Un altro grano interessante ed antico è il grano marzuolo, un grano duro che si seminava nelle aree montane in marzo, spesso come ripiego, quando le cattive condizioni climatiche autunnali avevano impedito la semina di altri cereali. Probabilmente, il grano marzuolo potrebbe corrispondere al trimenstre di Columella, cereale utilizzato in epoca romana per la semina primaverile di ripiego.
Questo tipo di grano è quasi del tutto scomparso in Abruzzo; di recente ho individuato un piccolo campo di grano marzuolo a Montenerodomo, nel settore montano della provincia di Chieti. I farri (Triticum dicoccon, T monococcon) in Abruzzo venivano coltivati diffusamente, fino al secondo dopoguerra, per esclusivo uso animale. Attualmente, in seguito alla riscoperta di questi cereali nell’alimentazione umana, la coltivazione dei farri si sta ridiffondendo in diverse regioni tra cui l’Abruzzo. Si tratta, però, di cultivar che provengono da altre regioni italiane (Umbria, Toscana, Lazio). Solo nel settore meridionale dell’Abruzzo, ai confini con il Molise, come nei comuni di Borrello o Montenerodomo, vengono tuttora coltivati farri autoctoni (Triticum dicoccon) o quantomeno provenienti dai vicini territori molisani. La spelta (Triticum spelta) invece è stata coltivata fino a qualche anno addietro sia per scopi zootecnici che per la paglia. Infatti questo cereale, come la segala, presenta culmi lunghi e sottili idonei per la copertura di capanne, pagliai, ecc. Di conseguenza, spesso, a ridosso degli orti, c’erano coltivazioni limitate di spelta o segala per la produzione di paglia. Interessante è stato il rinvenimento di spighe di spelta in un cuscino di sepoltura del XVII secolo nella chiesa di San Giacomo a Torricella Peligna.
Le altre antiche varietà colturali di grano, diffuse in Abruzzo nel secolo scorso (Del Re, 1835) e fino ai primi decenni di questo, come la saravolla, rosciola, carosella, sembrano totalmente scomparse dal territorio regionale come anche alcune colture più antiche, quali il miglio ed il panico la cui presenza è documentata in Abruzzo negli statuti dei secoli XV e XVI di molte comunità rurali. Stessa sorte per le vecchie varietà di orzo, attualmente sostituite da cultivar più produttivi. Tra le varietà ormai in disuso vi è l’orzo marzuolo con cui nelle terre più alte deIl’Aquilano si confezionava un tipo di pasta particolare nota come gnocchi sorgetti (Bonanni, 1877); mentre non si hanno più tracce della varietà di orzo nota come olivese utilizzata nel Teramano, fino al secolo scorso, dagli agricoltori per preparare minestre (Celli, 1893).
Un altro gruppo di specie erbacee di notevole interesse per l’agricoltura sono le leguminose. Nel territorio regionale, tuttora, si rinvengono aree specializzate nella produzione di particolari specie o varietà colturali. E il caso della lenticchia (Lens culinaris) coltivata oggi esclusivamente sul Gran Sasso a Santo Stefano di Sessanio, a quote che oscillano intorno a 1400-1500 m. Fino al secondo dopo-guerra, la lenticchia veniva coltivata anche in altri ambiti montani della regione come l’Alto Sangro o la Majella e montagne vicine. La cicerchia (Lathyrus sativus) allo stato attuale risulta maggiormente diffusa rispetto alla lenticchia; il centro specializzato nella sua produzione è Castelvecchio Calvisio sul Gran Sasso. Piccole coltivazioni per uso famigliare si localizzano anche nel medio bacino del fiume Sangro dove è tornata di moda una polenta verde fatta con la farina di cicerchia e conosciuta localmente come farchiata. Spesso, però, le antiche varietà locali sono state sostituite con varietà a seme più grosso di provenienza estera, con conseguenze intuibili per le forme autoctone.
Va preso atto della scomparsa del cece rosso, una piccola varietà di cece (Cicer aretinum) di colore scuro diffuso, fino all’ultima guerra, in buona parte della provincia di Chieti e nel Teramano, dove è stato sostituito con nuove varietà. Anche per i fagioli va denunciata la perdita di numerose varietà locali. Qualcuna però, come i caratteristici fagioli a olio di Paganica, vicino L’Aquila, o quelli a pane di Scanno e Frattura, tuttora vengono coltivati nella loro zona di diffusione dove ancora godono di un’alta considerazione e spuntano sul mercato prezzi piuttosto alti.
Fino a qualche decennio fa, nelle aree montane della regione, in particolare l’Alto Sangro e gli Altipiani Maggiori, era coltivato una varietà di pisello, probabilmente da riferire a Pisum sativum subsp. elatius, conosciuto localmente come riveglie. I semi servivano sia per l’alimentazione del bestiame che per l’alimentazione umana. A Pescocostanzo un piatto ampiamente consumato d’inverno era costituito proprio da sagne e riveglie. Giuliani in un suo scritto inedito della seconda metà del XVIII, parlando di Roccaraso e delle aree limitrofe, scriveva: “... e vi si coltiva una specie di legumi simili al pisello di un colore fusco cinereo detti con lingua patria Riveglie. Queste riveglie si seminano nel mese di Aprile, e vi si raccolgono nel mese di Agosto. Molto soddisfano alla povera gente, che costretta a star ritirata in casa per il freddo, e per le nevi ne fa di esse il maggior consumo nell’inverno...” (De Panfìlis, 1991). Le riveglie oggi risultano completamente scomparse nelle aree classiche della loro coltivazione. Stessa sorte è toccata ad altre leguminose da granella, un tempo diffusamente seminate per il bestiame nelle aree montane, come alcune varietà di Vicia sativa e Lathyrus cicera.
Il patrimonio agronomico regionale si presenta ricco e diversificato anche per quanto concerne gli alberi fruttiferi. Sopravvivono, tuttora, molte varietà di mele, alcune distribuite su vaste zone, altre invece limitate a piccole aree. Per avere un’idea dello straordinario patrimonio pomologico basti pensare che in un solo territorio comunale, quello di Gessopalena, alle falde della Majella, sono state riscontrate ben 13 diverse varietà di mele. Tra queste anche la mela piana o casolana, dal nome del vicino paese di Casoli a cui fa esplicito riferimento Boccaccio nel Decamerone quando, nella novella di Frate Puccio, accennando ad una donna scrive: ... fresca bella e ritondetta che pareva una mela casolana”.
Interessanti e significativi riferimenti storici e letterari sulle produzioni fruttifere abruzzesi le troviamo anche per quanto riguarda i fichi. Plinio asserisce in maniera esplicita che i migliori fichi, secondi per qualità solo a quelli delle isole Baleari, sono quelli dei Marruccini, ossia dei popoli che abitavano intorno all’antica Chieti. Tuttora in questa area è ampiamente diffusa la coltivazione dei fichi a scopo commerciale. A Bucchianico, il centro maggiormente interessato a questa pratica colturale, ho raccolto informazioni relative a 12 diverse varietà. Lo stesso nome dialettale carracine, diffuso in Abruzzo per indicare i fichi secchi, è probabile che tragga le sue radici etimologiche nell’antica varietà di fico caria, dal nome della località in Asia Minore, introdotta nella colonia di Alba Fucens, presso l’antico lago Fucino, da un ambasciatore romano in Siria come ci riferisce puntualmente Plinio (Manzi, 1997).
Per quanto riguarda la vite, molti vitigni sono andati persi. In particolare diverse uve bianche coltivate ampiamente nelle zone montane fino agli inizi di questo secolo, ove attualmente la coltura viticola ci sembra quantomeno improponibile. Tra queste probabilmente l’uva che Columella, nel De re rustica, individua come pumila nella conca aquilana o hirtiola nel settore nord della regione. Delle varietà di uve citate nello statuto del XVI secolo di Lanciano: muscardello, pergolo, uva pane, uva donnole, precoccio, malvasia (La Morgia, 1974), solo qualcuna risulta tuttora coltivata.
Nelle aree a vocazione olivicola della regione quale la zona vestina, che fa capo ai centri di Pianella, Loreto Aprutino e Penne, o il settore costiero e collinare della provincia di Chieti, si è conservato un notevole patrimonio di varietà ed ecotipi locali di olivo, alcune delle quali attualmente sono state recuperate e rilanciate sul mercato come nel caso della gentile dell’area teatina o della dritta e tortiglione delle provincie di Pescara e Teramo.
Tra le coltivazioni arboree risultano totalmente scomparse quelle dei frassini di manna (Fraxinus ornus e E oxycarpa) la cui presenza in Abruzzo è documentata nel settore meridionale e costiero fino ai primi decenni del secolo scorso (Manzi, 1989). Sono state abbandonate anche la coltivazione di specie fruttifere minori come l’azzarolo (Crataegus azarolus) di cui nel Teramano erano conosciute due distinte varietà (Quartapelle, 1853).
Forme di paesaggio
Molte delle antiche varietà colturali, sopra menzionate, risultano legate a forme di agricoltura tradizionali ancora praticate nei terreni marginali. In particolare per la coltivazione della solina, nei terreni montani dell’area degli Altipiani Maggiori, non si fa uso né di diserbanti tantomeno di concimazione chimica. All’interno di questi campi si rinvengono numerose archeofite ormai divenute molto rare altrove come Centaurea cyanus, Agrostemma githago, Galium tricornutum, Buplerum rotundifolium, Bifora testiculata, ecc. Sulle pendici del Gran Sasso, nonché in altre conche intramontane aquilane, i campi coltivati
a cereali o a leguminose ospitano specie commensali rarissime, note nel territorio italiano solo in poche stazioni come nel caso di Falcaria vulgaris, Ceratocephala falcata, Adonis flammea subsp. cortiana (Tammaro, 1995) o Androsace maxima subsp. maxima, che risulta persino inclusa nella Lista Rossa delle Piante d’italia (Conti etal., 1997).
Molti dei paesaggi antropogenici più belli e suggestivi della regione sono legati proprio alla coltivazione di antiche varietà agronomiche locali e a forme colturali tradizionali. E’ il caso dei campi aperti del Gran Sasso (Farinelli, 1981), espressione di una gestione collettiva del territorio e mediata tra l’agricoltura e la pastorizia, dove tuttora si coltivano cereali e leguminose adattate alle quote elevate ed ai terreni più magri. Inoltre i mandorleti delle conche aquilane (Console et. al.,1991) o delle pendici del Monte Velino e della Valle dell’Aterno che offrono nel periodo della fioritura uno spettacolo unico, anche in considerazione del contesto ambientale entro cui si collocano. Spesso sotto i mandorli, come nel caso dell’Altopiano di Navelli, vengono praticate antiche e preziose colture come quella dello zafferano.
Gli estesi uliveti nell’area Vestina, che conferiscono una profonda dolcezza al paesaggio collinare, sono costituiti da olivi piccoli e contorti appartenenti alle antiche varietà locali come la dritta, il tortigllone, la carbonchiola, ecc. Nel Chietino il paesaggio agrario, che Stendhal paragonava a quello toscano, è caratterizzato invece dalla gentile, una varietà di ulivo largamente coltivata nella provincia ed in particolare sul pianoro tra Casoli e Guardiagrele, dove sorgeva l’antica città sannitica di Cluviae. L’Abruzzo è la regione ove si incontrano due antichi modi di coltivare il vigneto: quello etrusco in cui la vite si “marita” all’albero (alberata) ed in particolare all’acero campestre, e quello di origine grecolatina con la vite coltivata ad alberello e sorretta da canne. L’alberata è diffusa principalmente in Toscana, Umbria e Marche. In Abruzzo si riscontra solo nella provincia teramana, ai confini con le Marche, dove tuttora sopravvivono lembi residui delle antiche alberate nelle zone collinari e montane di Civitella del Tronto, Campli, ecc. I vigneti con viti governate ad alberello e sorrette da canne,
invece, si localizzano nelle restanti aree della regione. Attualmente vigneti di questo tipo si rinvengono sempre più rari nelle fasce basso-montane della provincia di Chieti. Sia nelle ultime alberate che nei superstiti vigneti bassi con vite governata ad alberello, si sono conservati molti degli antichi vitigni. Infatti alcuni vigneti tradizionali, a detta dei proprietari, sono vecchi di quasi cento anni, forse impiantati prima della diffusione della fillossera e della peronospora che distrussero buona parte dei vigneti europei.
Il ruolo dei parchi e delle riserve naturali
L’Abruzzo è la regione europea con la più alta percentuale di territorio protetto. Infatti i tre parchi nazionali (Parco Nazionale d’Abruzzo, PN. della Majella, PN. del Gran Sasso e Monti della Laga), unitamente ai parchi regionali, riserve regionali e oasi del WWF interessano oltre il 30% dell’intero territorio regionale. All’interno delle aree protette non si riscontrano solo ambienti naturali, come foreste, praterie primarie, pareti rocciose ecc., ma anche ecosistemi di origine antropica come i pascoli secondari che occupano superfici molto ampie e non di rado anche campi e coltivi.
I parchi e le riserve, oltre che svolgere una fondamentale ed irrinunciabile azione di tutela e salvaguardia del patrimonio faunistico, vegetale, e degli ecosistemi in generale, possono rivestire un ruolo rilevante nella salvaguardia delle antiche varietà colturali e, più in generale, nel mantenimento della diversità agronomica, qualora il loro territorio risulti tuttora interessato a forme di agricoltura tradizionale. La necessita di preservare il patrimonio agronomico non è legata solo a mere motivazioni di genetica agraria, di per sé già molto importanti, ma anche a diversi ed ugualmente importanti aspetti. In particolar modo la disponibilità delle varietà colturali locali, adattate alle condizioni ambientali e con alto grado di rusticità, garantisce il mantenimento di quelle forme più caratteristiche ed esclusive del paesaggio agrario di cui si è accennato in precedenza. Inoltre la conservazione e la ridiffusione di queste varietà ad alta rusticità è un presupposto importante per il mantenimento e la promozione di un modello di agricoltura biologica e compatibili con le finalità che persegue un’area protetta. La tutela delle varietà agronomiche locali e in generale dei prodotti tipici di un’area, garantisce il mantenimento anche di una diversità e ricchezza culturale locale che proprio nei cibi tradizionali ha una delle manifestazioni più tangibili ed apprezzate.
Non va nemmeno sottovalutato il ruolo fondamentale che, spesso, le colture tradizionali rivestono per la conservazione di molte specie selvatiche sia floristiche che faunistiche. E’ il caso delle numerose piante infestanti le colture tradizionali a cereali o a leguminose di cui si è accennato in precedenza e che, oltre ad un indubbio valore fitogeografico, presentano anche un importanza culturale in quanto spesso si tratta di piante care alla tradizione popolare poiché cariche di significati magici o rituali, o più semplicemente utilizzate nella vita quotidiana come alimento supplettivo o per curare le malattie. Inoltre molte specie animali, spesso rare o in declino, risultano strettamente legate a particolari forme colturali e paesaggistiche, come nel caso dell’averla capirossa (Lanius senator) la cui presenza era correlata alle alberate nell’Italia centrale (Manzi, Perna, 1990), oppure le comunità ornitiche dei campi aperti del Gran Sasso, nello specifico diverse entità originarie degli ambienti steppici strettamente dipendenti dalle pratiche agronomiche. Il recupero e diffusione del grano marzuolo, ad esempio, potrebbe avere effetti positivi sulle comunità animali ed in particolare ornitiche. Trattandosi di un cereale a semina primaverile, i campi non vengono arati in agosto o settembre come avviene normalmente, pregiudicando la disponibilità alimentare nel periodo autunnale per molti animali, specialmente per gli individui giovani. Inoltre la mietitura viene posticipata, in questo modo si garantisce per un periodo più lungo l’ambiente di nidificazione e di alimentazione per diverse specie.
Nell’ottica di un programma di salvaguardia dei patrimonio agronomico, le aree protette ed in particolare i parchi nazionali e regionali, possono attivare una serie di interventi fra loro complementari. In primo luogo il censimento, catalogazione e tipificazione delle varietà colturali diffuse e caratteristiche nell’area di loro competenza.
L’allestimento di un giardino botanico finalizzato alla coltivazione delle varietà colturali locali al duplice scopo di conservazione ex situ di queste piante e di divulgazione della problematica inerenti la conservazione del patrimonio agronomico.
Organizzazione e gestione di una banca del seme, di una spermoteca o comunque un centro per la raccolta del germoplasma da localizzarsi preferenzialmente presso il giardino botanico.
lncentivi agli agricoltori ed aziende agrituristiche per facilitare la diffusione e la coltivazione sul territorio delle varietà colturali in via di scomparsa. in particolare le aziende agrituristiche potrebbero predisporre anche dei campi dimostrativi e didattici sulle antiche varietà locali.
Sono questi gli interventi minimi che potrebbero garantire la conservazione di un patrimonio non solo agronomico, ma più in generale culturale, unico, e per certi versi, irripetibile.
venerdì 9 novembre 2007
Campotosto e parco nazionale d'Abruzzo.
Le prime due sono del lago di Campotosto in autunno, la terza è una vista del massiccio del Gran Sasso dal valico delle Capannelle.La quarta è stata scattata nel Parco d’Abruzzo, proprio dove hanno trovato gli orsi uccisi, la località si chiama “acqua ventilata”.
domenica 4 novembre 2007
Sul monte Cimone, nel parco del Frignano (Modena)
Il Parco del Frignano si trova in provincia di Modena sull'appennino e si estende per circa 15.000 ettari sul territorio dei Comuni di Fanano, Fiumalbo, Frassinoro, Montecreto, Pievepelago, Riolunato e Sestola.
L’area protetta comprende tutto il tratto di crinale modenese, offrendo ambienti molto diversificati e di notevole valore naturalistico, spaziando dai 500 metri s.l.m. sino agli oltre 2000 metri.
Il comune di riferimento del parco è Pavullo nel Frignano (16000 abitanti circa), che sorge a 686 metri s.l.m. è situato a metà strada tra la pianura e l'alto Appennino modenese ed è facilmente raggiungibile sia da Modena che da Bologna percorrendo la Via Estense. Si connota come il comune più vasto ed importante dell'Appennino modenese, una vera e propria "città montana", ove ha sede la Comunità Montana del Frignano.
L'escursione più bella dal punto di vista paesaggistico è raggiungere la vetta del monte Cimone a 2165 metri di altezza. Il Tempo di percorrenza è di crca 6-7 ore tra andata e ritorno, con dislivello di circa 1000m. Risulta pertanto impegnativo.
Il Cimone è la montagna più alta dell’Appennino settentrionale. Si erge su una dorsale isolata rispetto allo spartiacque appenninico dominando l’intero territorio del Parco. Si trova vicino al confine con la provincia di Pistoia in Toscana. L’itinerario consigliato per la salita è piuttosto lungo e faticoso, ma molto panoramico e attraversa ambienti intatti e rappresentativi dell’area. Il percorso ha inizio da Bellagamba, piccolo abitato nel comune di Fiumalbo. Si segue il tracciato fino al primo bivio, da qui si prosegue a sinistra sul sentiero CAI 493, fino ad incontrare il Rio Acquicciola, guadato il quale ha inizio la lunga salita nel bosco verso la dorsale sud ovest del Monte Lagoni, dove, negli ampi terreni aperti che si alternano ai boschetti, nella tarda estate è possibile osservare bellissime fioriture di calluna e carlina bianca. A circa 1700 mt. di altitudine il sentiero esce dal bosco, mostrando il tipico ambiente di alta quota: splendide praterie che si alternano a fasce rocciose. Il percorso diventa qui estremamente panoramico, l’ambiente è alpestre e severo, il cono del Cimone incombe, ormai vicino; a sud il monte Libro Aperto presenta, evidentissime, le tracce degli antichi ghiacciai: circhi, pianori, accumuli morenici. Si prosegue verso nord sul sentiero CAI 447 su un terreno argilloso e nerastro, si sfiora la sommità del Monte Piazza prima di incontrare nuovamente le rocce arenacee nella cresta rocciosa che sale ripidamente fino al Monte Cimoncino. Da qui al Cimone è un breve saliscendi fino alla cappella dedicata alla Madonna della Neve. Il paesaggio è di una vastità sconcertante. In una giornata limpida si potrà abbracciare con lo sguardo tutta l’Italia settentrionale e gran parte di quella centrale, comprese le isole dell’arcipelago toscano e la Corsica; con l’aiuto di un binocolo la vista si estenderà fino alle coste dell’Istria, alle cime alpine e a sud est fino al Monte Amiata e al Terminillo. Per il ritorno si presentano due alternative: la prima consta nel percorrere a ritroso l’itinerario dell’andata; la seconda, consigliata a forti camminatori, consiste nell’imboccare il sentiero CAI 489 che sale da Doccia che, dopo una breve discesa nel bosco, si apre nella stupenda conca del Padule il Piano con i suoi numerosi ruscelli e i grandi faggi sopravvissuti al tempo e alle intemperie. Qui il sentiero diventa un viottolo ben marcato che scende rapidamente verso Doccia lungo una ripida e sassosa pista da sci di scarso valore paesaggistico.
sabato 3 novembre 2007
Il sentiero della Pace: dalla capitale all'appennino romano
Vi posto l'articolo integrale di Antono Citti dal sito abitare a Roma.
Sicuramente un'ottima occasione per tanti appassionati per organizzarsi in tutta comodità da Roma e provincia un vero e proprio pellegrinaggio spirituale (la zona in questione è ricca anche di luoghi di culto, come la SS Trinità di Vallepietra o i monasteri di Subiaco ma anche dei monti vicini) o più semplicemente per una scampagnata fuori porta con amici per passare qualche notte accampati a contatto con la natura.
Allora controllate l'equipaggiamento ed organizzatevi.
Il sentiero è percorso in sette giorni ogni anno da un nutrito ed organizzato gruppo di escursionisti fino ad oggi ad ottobre, subito dopo la festa di S. Francesco ed è previsto che ad ogni tappa siano ricevuti da una delegazione comunale e che la serata venga curata da una associazione locale, con discussione su argomenti di interesse ambientalistico pacifista , culturale e di folklore locale, spesso con regalo di libri e opuscoli sul tema.
Il progetto concretizzato dalla Federazione Italiana Escursionismo in collaborazione con il Centro Educazione Ambientale del 7° Municipio di Roma è stato finanziato dall’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Roma ed è dedicato all’Accompagnatore scomparso Salvatore Ricci e denominato Sentiero della Pace a sottolineare i valori di scambio di amicizia tra le persone ed i principi della convivenza pacifica.
Nel 2007 erano presenti tra gli escursionisti associati e responsabili del Servas, associazione che promuove l’ospitalità solidale, che cercherà di coinvolgere persone e famiglie della zona per renderle partecipi, facendo inoltre aderire strutture che possano ospitare i gruppi in maniera del tutto gratuita, nello spirito di collaborazione tra le persone ed i popoli. Erano anche presenti i giovani del movimento YAP, Youth Action for Peace, che quest’anno e per la terza volta è intervenuto, inviando ragazzi giunti da vari paesi del mondo come Corea, Palestina, Turchia, Ungheria, Spagna, per portare il loro aiuto, che con grande spirito di solidarietà e nel nome della pace hanno curato la manutenzione del percorso naturalistico, che nel 2008 giungerà fino al paese di montagna di Jenne, nel cuore del Parco Regionale dei Monti Simbruini.
Chi desidera informazioni può indirizzarsi alla segreteria della FIE Lazio: segreteria@fielazio.it Tel 06 7211301 dal martedì al venerdì dalle 17 alle 20
giovedì 1 novembre 2007
Piani di Luzza e Cima Sappada
Piani di Luzza è meno sfruttata turisticamente ed è l'ideale per chi ama godersi la montagna in assoluta riservatezza.
Famose per gli impianti sciistici d'inverno, Sappada ha impianti per sci alpino con numerosi impianti di risalita, Piani di Luzza invece ha un impianto molto grande per lo sci di fondo ed il tiro al bersaglio, in una piana nel bosco.
D'estate queste località riservano magnifici scenari, con alpeggi, pascoli, malghe,rifugi, tutti rigorosamente adornati con gerani multicolori. L'unico problema è il tempo, molto variabile, sono frequenti gli acquazzoni e le temperature possono essere piuttosto fresche anche in piena estate.
Belle anche le camminate e le falesie per chi ama arrampicare, nonchè i torrenti su cui fare rafting.
Inoltre passeggiando nei boschi mi è capitato di trovare numerosi funghi porcini, mote specie di alberi, lamponi, fragoline di bosco ed orchidee selvatiche molto belle. Quindi molto e lo da un punto di vista naturalistico. In effetti le vie escursionistiche panoramiche sono piuttosto impegnative e non proprio alla portata di tutti, essendo le montagne molto ripide e soprattutto rocciose.
Ci sono numerosi torrenti e gole scavate dall'acqua, con cascatelle tipiche, molto bello ed è' possibile recarsi alle sorgenti del fiume Piave lungo, la Val Selis, ai piedi del monte Peralba.
Suggestive come sempre in questi paesini, sono le chiesette,come quella di S.Margherita di stile barocco, costruita nel 1779 contenente alcuni affreschi di particolare pregio, situata in borgata Granvilla.
Merita una visita anche il paesino di Forni Avoltri (UD) e le malghe che negli intorni,dominata dalle cime più alte delle Alpi Carniche, il Monte Coglians con i suoi 2780 m di altitudine è la vetta più elevata.
Raccontatelo con una foto
Speditele all'indirizzo e-mail emiliano.rossi@micso.net
Aspetto vostre foto.
mercoledì 31 ottobre 2007
I sergenti.
Emiliano.
martedì 30 ottobre 2007
Animali selvatici...alle porte
In inverno è facile trovarsi in giardino animali selvatici in difficoltà, che arrancano per trovarsi un pasto. Spesso si tratta di ricci o di piccoli volatili in difficoltà. Non tutti sanno come affrontare la situazione. Una cosa molto semplice che si può fare per questi animali è dare loro del cibo.
Il riccio per esempio è un animale notturno e si muove soprattutto alla ricerca di piccoli insetti o di frutta di stagione, come le mele. Siccome il periodo riproduttivo va da giugno a settembre, può succedere che i cuccioli più piccoli non ce la facciano ad avere uno sviluppo completo entro la fine dell'autunno, trovandosi così in difficoltà l'inverno. Si possono aiutare fornendo un riparo sicuro magari nei catasti di legna o costruendo delle piccole tane con le tavole, consapevoli però che non sono animali stantii e quindi lasceranno il riparo non appena saranno in condizioni migliori e comunque se vi è la presenza di altri animali domestici che possano disturbare la loro quiete, loro tenderanno a andare via. Da mangiare possiamo dare dei piccoli pezzettini di carne fresca o degli spicchi di mela non sbucciata. In inverno i ricci rallentano molto il loro metabolismo e quindi tendono a muoversi meno. Non disturbateli, perchè creerete loro solo stress inutile.
Oltre i ricci spesso ci si può imbattere in uccellini infreddoliti o affamati. La cosa migliore da fare è dargli dei pezzettini di frutta di stagione oppure delle sementi piccole o delle larve per i meno schizzinosi! Si possono creare dei veri e propri mangiatoie per uccellini fatti con un sottovaso un un bastone, da appendere su un albero o in balcone o sul tetto, nel quale riporvi quanto detto prima, cosicché i volatili possano andare a rifocillarsi. In ogni caso è bene sapere che gli uccelli si nutrono di bacche dei rovi e cespugli, frutti secchi, castagne, semi, semini delle pigne di abete, e tutto quanto boschi e montagne sono in grado di offrirgli, per cui rispettando questo habitat lascerete le riserve di cui hanno bisogno per sopravvivere in inverno.
Autunno, tempo di castagne
Predilige i terreni acidi profondi, fertili e ben drenati e non molto pietrosi.
I suoi frutti, sono le castagne che si distinguono dai marroni, perchè di origine più selvatica, sono piccole e in genere in numero di 3 in un solo riccio. I marroni invece sono frutto di anni di coltivazioni e allevamento e sono più grandi e sono singoli in ogni riccio.
Questo è il periodo dell'anno in cui si raccolgono, per cui individuata la zona più vicina a voi ricca di boschi di castagno e armati di buona pazienza, di scarponi per il fango, ceste e io consiglio un berrettino che protegga da eventuali cadute di ricci sulla testa molto sgradevoli, mettiamoci in marcia per una bella raccolta o se non altro approfittiamone per una bella passeggiata nel bosco ossigenante e riposante alla riscoperta di queste tradizioni un po ancestrali.
Una volta raccolte la conservazione delle castagne prevede un trattamento con messa a mollo in acqua per una settimana dieci giorni circa, dopodiché una buona asciugatura e quindi la conservazione in un luogo fresco e asciutto in sacchi o ceste in cui sia possibile il passaggio di aria. In questo modo possono resistere per quasi tutto l'inverno.
Ci sono molti modi per cucinarle, come per esempio bollite oppure fatte essiccare e macinate per farne della farina con la quale è possibile confezionare torte (castagnaccio), frittelle di castagne, crepes, mousse, polenta. Personalmente però le adoro arrostite sul fuoco in una padella bucherellata, ma in mancanza di camino vanno bene anche al forno. La cottura al forno tende ad essiccarle molto, rispetto al fuoco diretto, per cui è consigliabile lasciarle cuocere ad una temperatura di 220°C per una mezz'ora o meno a seconda della grandezza. In genere accompagnare le castagne arrosto con un bicchiere di vino rosso giovane, fruttato e non molto forte, rende il pasto molto più ricco e saporito.
Non tutti sanno che le castagne arrosto restano spesso sullo stomaco per via della così detta reazione di Maillard (dallo scopritore della reazione) e cioè una trasformazione delle proteine che avviene in tutti gli alimenti che contengono zucchero (soprattutto glucosio) e proteine, ed è favorita da calore, luce, metalli, ambiente leggermente basico.
La reazione di Maillard dà origine a composti di varia natura, che a seconda della situazione possono dare caratteristiche positive o negative all'alimento.
Nel latte sterilizzato, per esempio, contribuiscono a dare lo sgradevole sapore di cotto e il colore grigio.
La reazione di Maillard avviene anche nelle cellule vive ed è un fattore che determina l'invecchiamento delle cellule. Infatti i prodotti terminali della reazione si accumulano nei tessuti e ne alterano l'elasticità, a causa dei legami che formano con le molecole di collageno.
A questo punto non mi resta che salutarvi e augurarvi buon appetito!
lunedì 29 ottobre 2007
Buona prospettiva autunnale per le nostre montagne
porterà ancoraGià la settimana scorsa si sono avute molte nevicate soprattutto in appennino, e poi molte piogge e ancora nevicate sulle alpi. Ora questa breve parentesi di bel tempo fa da preludio ad una nuova fase di maltempo che molte piogge e molta neve sulle alpi soprattutto questa settimana e poi ancora neve anche in appennino la settimana prossima.
Inoltre, dando uno sguardo in Europa, sembra ci sia un notevole raffreddamento del comparto russo-scandinavo, il che fa presagire un inverno piuttost freddo, se si dovesse mantenere questo il trend.
Staremo a vedere.
Buon proseguo di stagione e cominciate a scioinare tavole e sci!!!
Emiliano
Webcam del passo dello Stelvio e mappe delle precipitazioni e della situazione barica prevista per domani sera
lunedì 8 ottobre 2007
Fondi stanziati per la stazione sciistica di Monte Livata. Contrario il WWF Lazio
A questo finanziamento fa eco Raniero Maggini, Presidente del WWF Lazio che invece esprime riserve sui lavori per la stazione sciistica di Monte Livata (che è a quote non molto alte tra i 1400 e i 1800m, non proprio il massimo visti anche gli inverni tutt'altro che nevosi che si sono susseguiti in questi ultimi anni) :“Da quanto affermato dall’Assessore Rodano si capisce che lo stesso Comune di Subiaco non è stato in grado di presentare alcun progetto finanziabile alla Regione Lazio, per cui i fondi che si vorrebbero salvare dalla perenzione appaiono viceversa destinati a svanire. Questo sottolinea che le passate dichiarazioni del WWF circa la necessità di ‘decostruire Livata’ come invece stanno facendo i francesi sulle Alpi, fra l’altro in situazioni altimetriche e climatiche potenzialmente più favorevoli allo sci da discesa, non era certo una boutade”.“Quanto alle dichiarazioni del Presidente Memeo - conclude il Presidente del WWF Lazio – torniamo a chiederci come possa un Ente Parco, cui compete ad esempio l’emanazione dei nullaosta relativi alle opere da compiere a Monte Livata, diventare azionista o proprietario di impianti di risalita nella stessa località! L’esperienza grottesca dell’adesione al Consorzio Campo Staffi, voluta dal Commissario Abbate (nell’ambito della scorsa legislatura regionale) e che sta costando fior di quattrini all’Ente montano, dovrebbe avere insegnato al neo Presidente del Parco quali sono gli esiti del tutto negativi -oltre che di dubbia legittimità - di operazioni del genere”.
Intanto riporto una dichiarazione scritta molto polemica in merito all'abbandono delle istituzioni locali degli impianti sciistici di un responsabile del sito internet di Monte Livata:
"Alcuni giorni fa vi è stato un incontro tra cariche e rappresentanti di pubbliche e private amministrazioni per valutare la possibile apertura degli impianti scioviari di Livata la prossima stagione. Come tutti sapete, quel tipo di attrezzature è vincolato ad una scadenza fissa nel tempo, dopo di che è necessaria la loro sostituzione. I trenta anni di vita di Monna sono scoccati da due anni ed è tempo di rinnovo, a prescindere dalle condizioni dell'impianto stesso. Considerando l'abbandono e il "menefreghismo" che da anni aleggia sulla nostra montagna si è arrivati al capolinea senza aver mosso nulla. Lo scorso inverno avete potuto girare sullo skilift grazie ad una proroga, mentre per quello che si approssima si faceva leva su un'ulteriore prolungamento, reso possibile da un eventuale progeto di rinnovo approvato e finanziato, il quale fungeva da "tempi supplementari". Si arriva a fine settembre e si scopre che ...oops!..non c'è niente! Soprattutto il famoso finanziamento di due milioni di euro sembra non esistere, cosa che complica seriamente la proroga da parte della ministero della motorizzazione.Personalmente, senza entrare in discussioni da bar o polemiche con cui potrei riempire una lunghissima pagina(tipo : la 2001?...il comune che fa?....la regione?....il parco che blocca tutto e sempre?..i soldi per la slittinovia?...i politici di tutte le razze?) mi chiedo solo una cosa: PER QUALE MOTIVO, CONSAPEVOLI DI UN PROBLEMA, NON SI CERCA DI EVIDENZIARLO E RISOLVERLO CON TEMPO ANZICHE' ARRIVARE AD OTTOBRE? COLPA DI TUTTI!!!!! Tutto questo non conferma che non scieremo a Livata quest'inverno, ma un bel problema c'è da tempo e quello per risolverlo è poco.La soluzione è fare degli interventi straordinari di costo notevolmente inferiore alla sostituzione, e poi.... tutti a ringraziare qualcuno che ha parlato con qualcun'altro che ha messo buona parola con tizio, per farsi dare il benestare da caio! Intanto GRAZIE!!! (inizio a ringraziare anticipatamente il salvatore della patria di turno)"
Anche le risorse di 500 mila euro sulle forniture di acqua per i comuni interessati da siccità estiva vorrei capire come verranno spesi e per quali opere. Magari si potrebbe risparmiare invece semplicemente evitando di sprecare l'acqua degli invasi in inverno per sparare neve sulle piste ?! In questa storia sono solidale sia con il WWF che è giustamente preoccupato per un possibile deturpamento ambientale in una zona faunisticamente delicata come quella dei Simbruini, sia con i gestori degli impianti che vivendo di turismo hanno tutte le ragioni di richiedere entro i termini stabiliti dalle leggi che chi fa applicare e rispettare le leggi non abbandoni poi chi di quelle montagne ci vive e magari le cura perchè non vengano abbandonate!