lunedì 24 dicembre 2007

Introdotti altri 9 cervi nel Gran Sasso.

Ciao a tutti. Colgo l'occasione di questo articolo per augurare a tutti un felice Natale e un inizio di anno nuovo scoppiettante!!!

E' sicuramente un buon Natale anche per il parco Gran Sasso e Monti dell Laga, che ha visto la reintroduzione (progetto cominciato già da due anni) di nove cervi dell'Appennino tosco-emiliano, liberati in localita' Valle d'Angri di Farindola (PE). Si tratta di due maschi adulti di oltre 200 Kg, un giovane maschio, 4 femmine adulte e 2 piccoli. Sono stati catturati e poi rilasciati dalla ditta specializzata Dream Italia di Arezzo, nel Parco dei Laghi di Suviana e Brasimone e vanno ad aggiungersi all'altra decina di esemplari reintrodotti negli ultimi due anni nella stessa zona.

Tale zona è già stata popolata negli anni scorsi anche dei camosci, che vivono però a quote superiori e che si possono incontrare in quota sul monte camicia, se si ha fortuna però!

Buona notizia questa. Quindi armatevi di binocolo e chissà che passeggiando nei boschi di Farindola non si incontri un grande cervo!?

Buon Natale a tutti.

Emiliano

sabato 8 dicembre 2007

Progetto Cerere

Il progetto, si propone di recuperare e valorizzare le antiche varietà colturali, orticole, leguminose, cerealicole e frutticole. L’iniziativa coinvolge in via sperimentale i comuni del versante aquilano del Gran Sasso e precisamente: L’Aquila, Barete, Barisciano, Cagnano, Calascio, Campotosto, Capestrano, Capitignano, Carapelle, Castel del Monte, Castelvecchio Calvisio, Montereale, Ofena, Pizzoli, Santo Stefano di Sessanio, Villa Santa Lucia. I primi due incontri si sono svolti nel mese di novembre per i comuni di Barisciano, Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Carapelle Calvisio, Castelvecchio Calvisio, Castel del Monte, Capestrano, Ofena e Villa Santa Lucia, il progetto ha riscosso grande interesse da parte degli agricoltori dell’area protetta, i quali intendono partecipare con entusiasmo e approvazione. In occasione della presentazione sono emerse interessanti varietà agronomiche legate agli usi e alle tradizioni locali, che rischiano l’estinzione e meritano attenzione e salvaguardia, poiché da un lato rappresentano preziose risorse genetiche selezionatesi nel tempo e dall’altro offrono l’opportunità di diversificare e qualificare le produzioni agricole regionali utilizzando sistemi di produzione rispettosi dell’ambiente.

Questo il documento presentato da Aurelio Manzi (Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga):

Tutela delle biodiversità colturali e agronomiche: l’esperienza del Parco
Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga


Introduzione

La montagna appenninica negli ultimi decenni è stata teatro di profondi stravolgimenti di carattere sociale e culturale. I flussi migratori delle popolazioni montane, indirizzati nei primi decenni del secolo verso l’America, in seguito nei paesi europei e, successivamente, nelle aree industriali del nord del paese o nelle fasce costiere, hanno determinato lo spopolamento in massa delle terre marginali dell’entroterra, Il processo dell’abbandono produttivo di vastissime aree della penisola italiana è un fenomeno di portata storica. Infatti nella storia della penisola italiana, il processo di abbandono di aree limitate e circoscritte si è verificato di frequente in seguito ad eventi luttuosi quali terremoti, pandemie, guerre, ecc. Al contrario, un fenomeno così ampio e generalizzato nella dimensione spaziale e socio-economica, come quello attuale, nel nostro paese ebbe a verificarsi solo negli ultimi anni dell’Impero Romano ed in particolare in seguito alla caduta dello stesso e successive invasioni barbariche (Sereni, 1982). In quel determinato periodo storico buona parte del territorio italiano tornò a inselvatichirsi; si assistette al fenomeno di “reazione della foresta” e all’affermarsi del paesaggio del “saltus”, ossia dei terreni incolti ed abbandonati. Lo stesso paesaggio che, almeno nelle aree collinari e montane della penisola, oggi si sta riproponendo con forza.
Sui campi e pascoli abbandonati si sono innescati processi dinamici nella vegetazione naturale, riconducibili essenzialmente alla successione secondaria, che porteranno, con tempi ovviamente differenziati in base alle caratteristiche ambientali e stazionali, al ritorno della primitiva copertura forestale.
L’abbandono di vaste aree montane e alto-collinare da parte delle tradizionali attività umane ed in particolare quella agricola, oltre a molteplici ripercussioni sull’aspetto paesaggistico del territorio, nonché sui diversi ecosistemi secondari, sta determinando la scomparsa di moltissime antiche varietà colturali ivi sopravvissute ai cambiamenti tecnologici e sociali avvenuti nei decenni passati nelle fasce agricole più produttive della costa e della bassa collina. Stiamo così assistendo ad un allarmante fenomeno di erosione del patrimonio agronomico che non trova precedenti in passato. Già risultano estinte nel territorio abruzzese diverse varietà colturali locali, altre avranno la stessa sorte nel giro di qualche anno. E questo un fenomeno purtroppo comune ad altre regioni italiane ed europee. In Italia, a titolo di esempio, fino agli anni ‘20 erano state censite oltre 150 varietà di grano attualmente ridotte solamente a qualche decina (AA.W, 1991).

Le antiche varietà colturali

L’Abruzzo, quantunque localizzato al centro della penisola italiana, è una terra isolata, rispetto alle regioni circostanti, da montagne altissime che come ebbe a scrivere Silone “. ..sono i personaggi più prepotenti della vita abruzzese”. Non è un caso che Boccaccio nel suo Decamerone faccia dire a Calandrino, in riferimento ad una terra lontanissima e mitica, “più in là che in terra d’Abruzzo”.
L’isolamento geografico e la presenza di grandi complessi montuosi, inframezzati da conche ed altopiani, hanno giocato un ruolo decisivo nella selezione di forme colturali a diffusione prettamente locale. Il mantenimento di varietà colturali molto antiche è la conseguenza anche dell’attaccamento delle popolazioni, almeno fino a qualche decennio addietro, alle tradizionali forme economiche così magistralmente descritto da Silone: “Gli Abruzzesi sono rimasti stretti in una comunità di destino assai singolare, caratterizzata da una tenace fedeltà alle loro forme economiche e sociali anche oltre ogni pratica utilità, il che sarebbe inesplicabile se non si tenesse conto che il fattore costante della loro esistenza è appunto il più primitivo e stabile degli elementi, la natura”. Alcune di queste colture tipiche sono conosciute abbastanza diffusamente, in conseguenza del loro carattere originale ed esclusivo, come nel caso dello zafferano dei Piani di Navelli (Tammaro, Di Francesco, 1978) o dell’aglio rosso di Sulmona. Altre colture, in particolare varietà od ecotipi a diffusione locale, risultano sconosciuti, spesso anche nell’ambito della stessa regione. I cereali sono, tra le specie coltivate, quelle più importanti per il loro elevato valore nutrizionale e facilità di conservazione. Indubbiamente,
una delle varietà più interessanti ed antiche di grano tuttora presenti in Abruzzo è la solina. Si tratta di un grano tenero aristato che gli agronomi del secolo scorso individua-vano come Triticum hybemum.
Probabilmente la solina è da riferire all’antica siliginis di cui parlano sia Columella, nel De re rustica, che Plinio, nella sua Historia naturalis, e dalla quale si otteneva un ottimo pane. La consapevolezza che si tratta di un grano antico può essere ravvisato anche nei detti popolari locali: “Ogni grano torna a solina — La solina è la mamma di tutti i grani”.
La solina un tempo era diffusa in buona parte dell’Abruzzo (Del Re, 1835) ove erano conosciute anche diverse varietà locali (per es. a Castiglione Messer Marino solina nustrane, solina prandogne). Attualmente la sua coltura viene praticata quasi esclusivamente nell’Altopiano delle Cinquemiglia ad un’altitudine di circa 1300 m ove, insieme alla segala, risulta l’unico cereale in grado di garantire il raccolto a quote così elevate. Piccoli campi coltivati a solina si rinvengono anche nella zona di Pizzoferrato, nell’area dei Monti Pizzi, dove questo cereale viene seminato per esclusivo uso famigliare poiché, a detta dei contadini, fornisce un pane ottimo.
Un altro grano interessante ed antico è il grano marzuolo, un grano duro che si seminava nelle aree montane in marzo, spesso come ripiego, quando le cattive condizioni climatiche autunnali avevano impedito la semina di altri cereali. Probabilmente, il grano marzuolo potrebbe corrispondere al trimenstre di Columella, cereale utilizzato in epoca romana per la semina primaverile di ripiego.
Questo tipo di grano è quasi del tutto scomparso in Abruzzo; di recente ho individuato un piccolo campo di grano marzuolo a Montenerodomo, nel settore montano della provincia di Chieti. I farri (Triticum dicoccon, T monococcon) in Abruzzo venivano coltivati diffusamente, fino al secondo dopoguerra, per esclusivo uso animale. Attualmente, in seguito alla riscoperta di questi cereali nell’alimentazione umana, la coltivazione dei farri si sta ridiffondendo in diverse regioni tra cui l’Abruzzo. Si tratta, però, di cultivar che provengono da altre regioni italiane (Umbria, Toscana, Lazio). Solo nel settore meridionale dell’Abruzzo, ai confini con il Molise, come nei comuni di Borrello o Montenerodomo, vengono tuttora coltivati farri autoctoni (Triticum dicoccon) o quantomeno provenienti dai vicini territori molisani. La spelta (Triticum spelta) invece è stata coltivata fino a qualche anno addietro sia per scopi zootecnici che per la paglia. Infatti questo cereale, come la segala, presenta culmi lunghi e sottili idonei per la copertura di capanne, pagliai, ecc. Di conseguenza, spesso, a ridosso degli orti, c’erano coltivazioni limitate di spelta o segala per la produzione di paglia. Interessante è stato il rinvenimento di spighe di spelta in un cuscino di sepoltura del XVII secolo nella chiesa di San Giacomo a Torricella Peligna.
Le altre antiche varietà colturali di grano, diffuse in Abruzzo nel secolo scorso (Del Re, 1835) e fino ai primi decenni di questo, come la saravolla, rosciola, carosella, sembrano totalmente scomparse dal territorio regionale come anche alcune colture più antiche, quali il miglio ed il panico la cui presenza è documentata in Abruzzo negli statuti dei secoli XV e XVI di molte comunità rurali. Stessa sorte per le vecchie varietà di orzo, attualmente sostituite da cultivar più produttivi. Tra le varietà ormai in disuso vi è l’orzo marzuolo con cui nelle terre più alte deIl’Aquilano si confezionava un tipo di pasta particolare nota come gnocchi sorgetti (Bonanni, 1877); mentre non si hanno più tracce della varietà di orzo nota come olivese utilizzata nel Teramano, fino al secolo scorso, dagli agricoltori per preparare minestre (Celli, 1893).
Un altro gruppo di specie erbacee di notevole interesse per l’agricoltura sono le leguminose. Nel territorio regionale, tuttora, si rinvengono aree specializzate nella produzione di particolari specie o varietà colturali. E il caso della lenticchia (Lens culinaris) coltivata oggi esclusivamente sul Gran Sasso a Santo Stefano di Sessanio, a quote che oscillano intorno a 1400-1500 m. Fino al secondo dopo-guerra, la lenticchia veniva coltivata anche in altri ambiti montani della regione come l’Alto Sangro o la Majella e montagne vicine. La cicerchia (Lathyrus sativus) allo stato attuale risulta maggiormente diffusa rispetto alla lenticchia; il centro specializzato nella sua produzione è Castelvecchio Calvisio sul Gran Sasso. Piccole coltivazioni per uso famigliare si localizzano anche nel medio bacino del fiume Sangro dove è tornata di moda una polenta verde fatta con la farina di cicerchia e conosciuta localmente come farchiata. Spesso, però, le antiche varietà locali sono state sostituite con varietà a seme più grosso di provenienza estera, con conseguenze intuibili per le forme autoctone.
Va preso atto della scomparsa del cece rosso, una piccola varietà di cece (Cicer aretinum) di colore scuro diffuso, fino all’ultima guerra, in buona parte della provincia di Chieti e nel Teramano, dove è stato sostituito con nuove varietà. Anche per i fagioli va denunciata la perdita di numerose varietà locali. Qualcuna però, come i caratteristici fagioli a olio di Paganica, vicino L’Aquila, o quelli a pane di Scanno e Frattura, tuttora vengono coltivati nella loro zona di diffusione dove ancora godono di un’alta considerazione e spuntano sul mercato prezzi piuttosto alti.
Fino a qualche decennio fa, nelle aree montane della regione, in particolare l’Alto Sangro e gli Altipiani Maggiori, era coltivato una varietà di pisello, probabilmente da riferire a Pisum sativum subsp. elatius, conosciuto localmente come riveglie. I semi servivano sia per l’alimentazione del bestiame che per l’alimentazione umana. A Pescocostanzo un piatto ampiamente consumato d’inverno era costituito proprio da sagne e riveglie. Giuliani in un suo scritto inedito della seconda metà del XVIII, parlando di Roccaraso e delle aree limitrofe, scriveva: “... e vi si coltiva una specie di legumi simili al pisello di un colore fusco cinereo detti con lingua patria Riveglie. Queste riveglie si seminano nel mese di Aprile, e vi si raccolgono nel mese di Agosto. Molto soddisfano alla povera gente, che costretta a star ritirata in casa per il freddo, e per le nevi ne fa di esse il maggior consumo nell’inverno...” (De Panfìlis, 1991). Le riveglie oggi risultano completamente scomparse nelle aree classiche della loro coltivazione. Stessa sorte è toccata ad altre leguminose da granella, un tempo diffusamente seminate per il bestiame nelle aree montane, come alcune varietà di Vicia sativa e Lathyrus cicera.
Il patrimonio agronomico regionale si presenta ricco e diversificato anche per quanto concerne gli alberi fruttiferi. Sopravvivono, tuttora, molte varietà di mele, alcune distribuite su vaste zone, altre invece limitate a piccole aree. Per avere un’idea dello straordinario patrimonio pomologico basti pensare che in un solo territorio comunale, quello di Gessopalena, alle falde della Majella, sono state riscontrate ben 13 diverse varietà di mele. Tra queste anche la mela piana o casolana, dal nome del vicino paese di Casoli a cui fa esplicito riferimento Boccaccio nel Decamerone quando, nella novella di Frate Puccio, accennando ad una donna scrive: ... fresca bella e ritondetta che pareva una mela casolana”.
Interessanti e significativi riferimenti storici e letterari sulle produzioni fruttifere abruzzesi le troviamo anche per quanto riguarda i fichi. Plinio asserisce in maniera esplicita che i migliori fichi, secondi per qualità solo a quelli delle isole Baleari, sono quelli dei Marruccini, ossia dei popoli che abitavano intorno all’antica Chieti. Tuttora in questa area è ampiamente diffusa la coltivazione dei fichi a scopo commerciale. A Bucchianico, il centro maggiormente interessato a questa pratica colturale, ho raccolto informazioni relative a 12 diverse varietà. Lo stesso nome dialettale carracine, diffuso in Abruzzo per indicare i fichi secchi, è probabile che tragga le sue radici etimologiche nell’antica varietà di fico caria, dal nome della località in Asia Minore, introdotta nella colonia di Alba Fucens, presso l’antico lago Fucino, da un ambasciatore romano in Siria come ci riferisce puntualmente Plinio (Manzi, 1997).
Per quanto riguarda la vite, molti vitigni sono andati persi. In particolare diverse uve bianche coltivate ampiamente nelle zone montane fino agli inizi di questo secolo, ove attualmente la coltura viticola ci sembra quantomeno improponibile. Tra queste probabilmente l’uva che Columella, nel De re rustica, individua come pumila nella conca aquilana o hirtiola nel settore nord della regione. Delle varietà di uve citate nello statuto del XVI secolo di Lanciano: muscardello, pergolo, uva pane, uva donnole, precoccio, malvasia (La Morgia, 1974), solo qualcuna risulta tuttora coltivata.
Nelle aree a vocazione olivicola della regione quale la zona vestina, che fa capo ai centri di Pianella, Loreto Aprutino e Penne, o il settore costiero e collinare della provincia di Chieti, si è conservato un notevole patrimonio di varietà ed ecotipi locali di olivo, alcune delle quali attualmente sono state recuperate e rilanciate sul mercato come nel caso della gentile dell’area teatina o della dritta e tortiglione delle provincie di Pescara e Teramo.
Tra le coltivazioni arboree risultano totalmente scomparse quelle dei frassini di manna (Fraxinus ornus e E oxycarpa) la cui presenza in Abruzzo è documentata nel settore meridionale e costiero fino ai primi decenni del secolo scorso (Manzi, 1989). Sono state abbandonate anche la coltivazione di specie fruttifere minori come l’azzarolo (Crataegus azarolus) di cui nel Teramano erano conosciute due distinte varietà (Quartapelle, 1853).

Forme di paesaggio

Molte delle antiche varietà colturali, sopra menzionate, risultano legate a forme di agricoltura tradizionali ancora praticate nei terreni marginali. In particolare per la coltivazione della solina, nei terreni montani dell’area degli Altipiani Maggiori, non si fa uso né di diserbanti tantomeno di concimazione chimica. All’interno di questi campi si rinvengono numerose archeofite ormai divenute molto rare altrove come Centaurea cyanus, Agrostemma githago, Galium tricornutum, Buplerum rotundifolium, Bifora testiculata, ecc. Sulle pendici del Gran Sasso, nonché in altre conche intramontane aquilane, i campi coltivati
a cereali o a leguminose ospitano specie commensali rarissime, note nel territorio italiano solo in poche stazioni come nel caso di Falcaria vulgaris, Ceratocephala falcata, Adonis flammea subsp. cortiana (Tammaro, 1995) o Androsace maxima subsp. maxima, che risulta persino inclusa nella Lista Rossa delle Piante d’italia (Conti etal., 1997).
Molti dei paesaggi antropogenici più belli e suggestivi della regione sono legati proprio alla coltivazione di antiche varietà agronomiche locali e a forme colturali tradizionali. E’ il caso dei campi aperti del Gran Sasso (Farinelli, 1981), espressione di una gestione collettiva del territorio e mediata tra l’agricoltura e la pastorizia, dove tuttora si coltivano cereali e leguminose adattate alle quote elevate ed ai terreni più magri. Inoltre i mandorleti delle conche aquilane (Console et. al.,1991) o delle pendici del Monte Velino e della Valle dell’Aterno che offrono nel periodo della fioritura uno spettacolo unico, anche in considerazione del contesto ambientale entro cui si collocano. Spesso sotto i mandorli, come nel caso dell’Altopiano di Navelli, vengono praticate antiche e preziose colture come quella dello zafferano.
Gli estesi uliveti nell’area Vestina, che conferiscono una profonda dolcezza al paesaggio collinare, sono costituiti da olivi piccoli e contorti appartenenti alle antiche varietà locali come la dritta, il tortigllone, la carbonchiola, ecc. Nel Chietino il paesaggio agrario, che Stendhal paragonava a quello toscano, è caratterizzato invece dalla gentile, una varietà di ulivo largamente coltivata nella provincia ed in particolare sul pianoro tra Casoli e Guardiagrele, dove sorgeva l’antica città sannitica di Cluviae. L’Abruzzo è la regione ove si incontrano due antichi modi di coltivare il vigneto: quello etrusco in cui la vite si “marita” all’albero (alberata) ed in particolare all’acero campestre, e quello di origine grecolatina con la vite coltivata ad alberello e sorretta da canne. L’alberata è diffusa principalmente in Toscana, Umbria e Marche. In Abruzzo si riscontra solo nella provincia teramana, ai confini con le Marche, dove tuttora sopravvivono lembi residui delle antiche alberate nelle zone collinari e montane di Civitella del Tronto, Campli, ecc. I vigneti con viti governate ad alberello e sorrette da canne,
invece, si localizzano nelle restanti aree della regione. Attualmente vigneti di questo tipo si rinvengono sempre più rari nelle fasce basso-montane della provincia di Chieti. Sia nelle ultime alberate che nei superstiti vigneti bassi con vite governata ad alberello, si sono conservati molti degli antichi vitigni. Infatti alcuni vigneti tradizionali, a detta dei proprietari, sono vecchi di quasi cento anni, forse impiantati prima della diffusione della fillossera e della peronospora che distrussero buona parte dei vigneti europei.

Il ruolo dei parchi e delle riserve naturali

L’Abruzzo è la regione europea con la più alta percentuale di territorio protetto. Infatti i tre parchi
nazionali (Parco Nazionale d’Abruzzo, PN. della Majella, PN. del Gran Sasso e Monti della Laga), unitamente ai parchi regionali, riserve regionali e oasi del WWF interessano oltre il 30% dell’intero territorio regionale. All’interno delle aree protette non si riscontrano solo ambienti naturali, come foreste, praterie primarie, pareti rocciose ecc., ma anche ecosistemi di origine antropica come i pascoli secondari che occupano superfici molto ampie e non di rado anche campi e coltivi.
I parchi e le riserve, oltre che svolgere una fondamentale ed irrinunciabile azione di tutela e salvaguardia del patrimonio faunistico, vegetale, e degli ecosistemi in generale, possono rivestire un ruolo rilevante nella salvaguardia delle antiche varietà colturali e, più in generale, nel mantenimento della diversità agronomica, qualora il loro territorio risulti tuttora interessato a forme di agricoltura tradizionale. La necessita di preservare il patrimonio agronomico non è legata solo a mere motivazioni di genetica agraria, di per sé già molto importanti, ma anche a diversi ed ugualmente importanti aspetti. In particolar modo la disponibilità delle varietà colturali locali, adattate alle condizioni ambientali e con alto grado di rusticità, garantisce il mantenimento di quelle forme più caratteristiche ed esclusive del paesaggio agrario di cui si è accennato in precedenza. Inoltre la conservazione e la ridiffusione di queste varietà ad alta rusticità è un presupposto importante per il mantenimento e la promozione di un modello di agricoltura biologica e compatibili con le finalità che persegue un’area protetta. La tutela delle varietà agronomiche locali e in generale dei prodotti tipici di un’area, garantisce il mantenimento anche di una diversità e ricchezza culturale locale che proprio nei cibi tradizionali ha una delle manifestazioni più tangibili ed apprezzate.
Non va nemmeno sottovalutato il ruolo fondamentale che, spesso, le colture tradizionali rivestono per la conservazione di molte specie selvatiche sia floristiche che faunistiche. E’ il caso delle numerose piante infestanti le colture tradizionali a cereali o a leguminose di cui si è accennato in precedenza e che, oltre ad un indubbio valore fitogeografico, presentano anche un importanza culturale in quanto spesso si tratta di piante care alla tradizione popolare poiché cariche di significati magici o rituali, o più semplicemente utilizzate nella vita quotidiana come alimento supplettivo o per curare le malattie. Inoltre molte specie animali, spesso rare o in declino, risultano strettamente legate a particolari forme colturali e paesaggistiche, come nel caso dell’averla capirossa (Lanius senator) la cui presenza era correlata alle alberate nell’Italia centrale (Manzi, Perna, 1990), oppure le comunità ornitiche dei campi aperti del Gran Sasso, nello specifico diverse entità originarie degli ambienti steppici strettamente dipendenti dalle pratiche agronomiche. Il recupero e diffusione del grano marzuolo, ad esempio, potrebbe avere effetti positivi sulle comunità animali ed in particolare ornitiche. Trattandosi di un cereale a semina primaverile, i campi non vengono arati in agosto o settembre come avviene normalmente, pregiudicando la disponibilità alimentare nel periodo autunnale per molti animali, specialmente per gli individui giovani. Inoltre la mietitura viene posticipata, in questo modo si garantisce per un periodo più lungo l’ambiente di nidificazione e di alimentazione per diverse specie.
Nell’ottica di un programma di salvaguardia dei patrimonio agronomico, le aree protette ed in particolare i parchi nazionali e regionali, possono attivare una serie di interventi fra loro complementari. In primo luogo il censimento, catalogazione e tipificazione delle varietà colturali diffuse e caratteristiche nell’area di loro competenza.
L’allestimento di un giardino botanico finalizzato alla coltivazione delle varietà colturali locali al duplice scopo di conservazione ex situ di queste piante e di divulgazione della problematica inerenti la conservazione del patrimonio agronomico.
Organizzazione e gestione di una banca del seme, di una spermoteca o comunque un centro per la raccolta del germoplasma da localizzarsi preferenzialmente presso il giardino botanico.
lncentivi agli agricoltori ed aziende agrituristiche per facilitare la diffusione e la coltivazione sul territorio delle varietà colturali in via di scomparsa. in particolare le aziende agrituristiche potrebbero predisporre anche dei campi dimostrativi e didattici sulle antiche varietà locali.
Sono questi gli interventi minimi che potrebbero garantire la conservazione di un patrimonio non solo agronomico, ma più in generale culturale, unico, e per certi versi, irripetibile.